“La rivoluzione è nemica delle mezze misure” scriveva Frantz Fanon nel settembre del 1957: non per professione di estremismo politico quanto per chiarire che la rivoluzione algerina (1954-1962) era un evento destinato a trasformare per sempre i rapporti tra Algeria e Francia e, più in generale, quelli tra Europa ed ex colonie. Non esisteva per Fanon e per tutto il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino alcuna possibilità di compromesso nel rapporto con Parigi se non la fuoriuscita dell’esercito francese dal territorio nordafricano nel segno dell’indipendenza e dell’autodeterminazione.
Questo è il terzo volume degli Scritti Politici (per la cura di Gabriele Proglio) e si colloca cronologicamente a metà degli eventi rivoluzionari e anche a metà strada tra i due classici del pensiero fanoniano: lo studio psichiatrico, politico e linguistico di Pelle nera, maschere bianche (1952; riedito in italiano nel 2015) e l’infiammata prosa lirico-filosofica dei Dannati della terra (1962). Si tratta di testi generalmente molto brevi, pubblicati anonimamente sul quotidiano militante El Moudjahid, nei quali con una scrittura paratattica e fortemente assertiva, lo psichiatra martinicano descrive l’inesorabile avanzata della causa rivoluzionaria verso la vittoria finale, mettendo ossessivamente in luce il degrado politico e culturale dell’opinione pubblica francese – e soprattutto della Sinistra –, ormai completamente appiattita sul mantenimento dello status quo coloniale francese in Algeria.
Tuttavia, lo sguardo di Fanon non resta intrappolato in quella che rischiava di essere una claustrofobica dinamica franco-algerina: esso ritmicamente si allarga, rimandando all’ambiguità delle reazioni euro-americane (soprattutto alle ondivaghe posizioni di Stati Uniti, Regno Unito e Italia) nei confronti della causa algerina e, in maniera ancora più eloquente, al significato profondo di quella rivoluzione, ovvero il movimento anticoloniale di liberazione di tutti i popoli oppressi dalle potenze europee. Per questo, Fanon riflette costantemente sul linguaggio e le pratiche discorsive in atto nei media francesi per denigrare la causa algerina, non risparmiando mai l’uso delle parole “fascismo” e “fascista” nei confronti della potenza colonizzatrice.
Dopo il colpo di Stato del ’58 e l’ascesa alla presidenza della Quinta Repubblica del generale De Gaulle, Fanon parla dello slogan gollista “Algeria francese” come “culto mistico dei miti fuori moda”. Forse bisognerebbe ripartire di qui per capire come mai in tanta parte del mondo cosiddetto occidentale, dal Ferguson a Macerata, al tempo delle crisi del debito e dei migranti, tornino di moda miti ritenuti per tanto tempo armamentario per nostalgici. Fanon non offre risposte certe né consolatorie, ma la trama di questi testi davvero “militanti” è disseminata di suggerimenti per leggere, nelle asimmetrie originariamente create dalla modernità coloniale, i rapporti di potere razzisti che presiedono al funzionamento psichico, politico e culturale della Globalizzazione neoliberista, oggi.