Dopo Un amore esemplare di Daniel Pennac e Florence Cestac, la neonata collana Feltrinelli Comics, a cura di Tito Faraci, propone La fine della ragione, fumetto scritto e disegnato da Roberto Recchioni, soggettista, sceneggiatore, curatore di Dylan Dog, creatore di John Doe con Lorenzo Bartoli, scrittore di romanzi fantasy (YA – La Battaglia di Campocarne, 2015 e YA – L’ammazzadraghi, 2017, entrambi usciti per Mondadori). In oltre vent’anni di carriera, dal fumetto al cinema, Recchioni è sempre stato un artista diretto, anticonformista, ironico, molto spesso sopra le righe. Il suo blog prima e ora il profilo Facebook riflettono l’incontenibile personalità della “rockstar del fumetto italiano” come lui stesso ama definirsi.
Dopo Asso (Edizioni NPE, 2012), fortemente autobiografico, ne La fine della ragione Recchioni è di nuovo narratore in prima persona: questa volta, tuttavia, l’alter ego dell’autore romano è un uomo stanco, disilluso, che racconta una realtà nella quale “hanno vinto loro”, gli antivaccinisti, chi crede nelle scie chimiche e nei fiori di Bach, il “popolo” nel senso dispregiativo del termine, la massa feroce che parla “con la pancia”.
L’inizio è scoppiettante, sulle note dei Ramones: una nota provocatoria avverte il lettore che il fumetto è scritto in un linguaggio volutamente semplice, con alcune parole in rosso, come nei libri per la scuola primaria, in modo che chiunque possa “parlarne liberamente, senza averlo letto”. Nel corso del libro, Recchioni interviene spesso, come voce narrante e protagonista: il suo alter ego delle prime pagine, infuocato, sprezzante (Don Chisciotte me fa ’na pippa, a me!) si trasforma a poco a poco, come Ringo tra la prima e la seconda stagione di Orfani. Come in un ouroboros, il narratore placa il fuoco iconoclasta del giovane “nemico di tutti” e rinasce ronin, eroe, padre.
In questa cornice, il fumetto racconta il viaggio di una madre per salvare la vita della figlia malata nella desolazione di un futuro distopico: una donna senza nome, rappresentazione archetipica di tutte le madri e, anche in questo caso, un rimando alla vita dell’autore, con un affettuoso omaggio alla madre scomparsa poco dopo l’uscita del fumetto. A questa figura positiva, salvifica, si contrappone la vecchia del villaggio, anche lei senza nome, maligna espressione della “volontà popolare”, secondo la quale l’inevitabile morte della bambina non potrebbe mai essere colpa dell’oscurantismo che domina questa realtà alternativa, ma del “destino” (E nessuno può nulla contro il destino!).
La fine della ragione è quindi un fumetto strettamente legato all’attualità per gli argomenti trattati e il linguaggio, con chiari riferimenti alla cultura pop (Star Wars, Indiana Jones, Ghostbusters, persino il deposito di Zio Paperone…) e il continuo richiamo alla musica, la letteratura (dalla Bibbia a Mishima e Bradbury), il cinema; i piccoli dettagli sono dimostrazione di un’analisi attenta della realtà nella quale viviamo (Spezzategli un braccio! incita un anonimo poliziotto in tenuta antisommossa contro i manifestanti…).
Sarebbe consolante poter dire che questo fumetto parla di un futuro remoto, una minaccia fantasma che possiamo ancora evitare: al contrario, pagina dopo pagina, il racconto diventa cronaca e il risultato finale è un ritratto impietoso della quotidianità. Si parte dalla scuola, le bufale, il complottismo: poi la guerra, la cieca e ottusa repressione; infine il ghigno crudele della folla rabbiosa, affamata, disperata, figure nere su uno sfondo rosso di sangue, oltre i meme, gli sfottò, la satira, per diventare tragedia reale. La narrazione, soprattutto nella prima parte, è intervallata da battute che interrompono il climax: ad ogni modo, sotto l’ironia e il sarcasmo si legge l’amarezza dell’autore per il presente e la sua paura del futuro.
È facile identificare nell’eterogeneo e spesso ridicolo gruppo dei cosiddetti complottisti il “nemico”, “loro”, la “massa” ignorante e becera (aggettivo tanto di moda oggi) che ci porterà alla rovina. Al contrario, La fine della ragione indica nel populismo il vero pericolo, nelle facce deformi, quasi caricaturali, che gridano Prima noi! Prima noi! Ma chi cazzo siete voi? Un’accusa a tutti: alla rabbia della folla si contrappone la cecità di una classe politica irresponsabile che tenta disperatamente di ottenere consenso per continuare a governare, certa di poter manovrare forze che, al contrario, la divoreranno (La società aveva fallito! scandisce il narratore). Un’altra critica feroce è diretta contro quella classe privilegiata che se ne stava in torri d’avorio a dissertare di problemi astratti e di inutili ricerche, mentre il Paese reale faceva fatica a campare: in particolare gli operatori sanitari, rinchiusi nelle viscere di una montagna, pronti ad aiutare la madre, ma troppo pavidi per uscire dal loro rifugio…
La fine della ragione, forse troppo breve per la complessità dell’argomento trattato, nasce da una contraddizione: è contro “le risposte facili ai problemi complessi”, ma decidere di cosa raccontare e come interpretare il presente è comunque una scelta di campo e, d’altronde, niente di quello che facciamo o diciamo resta isolato in una monade e ogni azione ha una natura civile, più che politica. Il libro parla di responsabilità: del singolo che contribuisce a diffondere notizie false, dei partiti, della classe medica e, soprattutto, di coloro che, nel loro dorato e compiaciuto isolamento, interpretano i nostri tempi adducendo la colpa di tutto alle “masse”, ai “razzisti”, agli “analfabeti funzionali” che votano “i populisti”. Recchioni avverte del pericolo di dare voce a chiunque, rifiutarsi di rispettare il confine tra opinione, manipolazione, crimine in nome di una mal compresa “libertà di parola” che, al contrario, incatena al bisogno innato di essere protetti, consolati e sull’altare di questo bisogno sacrifica la verità.
I punti cruciali de La fine della ragione sono molti: per questo si può dire che la ricerca della madre sia in realtà una non-storia che presto cede il passo a una narrazione didascalica, attraverso molte pagine di lettering urlato, efficace, ma che può non piacere. Il libro nasce da pochi, estenuanti mesi di lavoro febbrile per rispettare le tempistiche editoriali, tuttavia, come ogni grande autore, Recchioni è riuscito a fare di necessità virtù: i colori scuri, lo stile semplice e volutamente imperfetto nel quale riecheggiano le tecniche della pittura a china imparate durante i recenti viaggi in Giappone e Corea, le influenze di Andrea Pazienza, Frank Miller e Gō Nagai, la scelta stessa della carta concorrono a dare voce a un fumetto sincero, diretto, senza filtri, un affresco della società attuale che non è altro che un ritratto di noi stessi.