“Amicizia: una cosa da uomini?”

Convinti che i libri e i saggi debbano essere occasione di riflessione e dibattito, volentieri ospitiamo la risposta di Adriano Bertollini alla recensione di Elisabetta Michielin.

Una delle maggiori soddisfazioni che un libro può procurare all’autore è una recensione negativa, o comunque critica, soprattutto se si tratta dell’opera prima di un emerito sconosciuto. Per questo motivo, sono sinceramente grato a Elisabetta Michielin che, oltre ad aver letto con attenzione il mio lavoro [l’autore si riferisce alla recensione pubblicata il 14 gennaio, N.D.R.], ha deciso di scriverne, ritenendo che valesse la pena di dissentire da quanto ho sostenuto.

Proprio per questo, vorrei rispondere ad alcune delle osservazioni critiche che mi sono state rivolte. Innanzi su tutto una questione di metodo, o, se si vuole, relativa al genere letterario. Una ricerca di filosofia è per sua natura distinta da un’opera di divulgazione. Se la seconda mira a esporre con chiarezza al grande pubblico risultati già acquisiti, la prima invece ambisce a produrre essa stessa dei risultati, a fornire pensieri e concetti con cui afferrare il fenomeno indagato. Questa diversa postura rende i libri di filosofia spesso difficili e complessi, ma ciò non vuol dire, come sostiene Michielin, che “la posta in gioco non è che per i filosofi di professione”. Ciò che ho provato a fare è stato usare testi e riflessioni appartenenti a una lunga tradizione per descrivere, nel modo più chiaro possibile e senza cedere di un millimetro al vezzo dell’oscurità spesso caro ai filosofi, qualcosa di così importante ed enigmatico come l’amicizia. Dico descrivere non a caso: non sta a me dire se l’operazione è riuscita, ma l’obiettivo del lavoro era fornire una teoria dell’amicizia con cui cercare di comprenderla, non una precettistica, una serie di indicazioni pratiche al lettore su come comportarsi con i suoi amici, cosa che invece Michielin avrebbe gradito. Vi sono due ragioni per questa scelta. Per un fatto di umiltà, non credo di essere nella posizione di consigliare a qualcuno come agire. Per una questione di gusto, ritengo che le opere filosofiche più significative siano quelle che riducono al minimo l’elemento prescrittivo, limitandosi a fornire chiavi di lettura per mutare lo sguardo sulla realtà. Senza scadere nel campo della morale, che spesso è sinonimo di moralismo.

La perplessità principale dell’autrice della recensione riguarda quella che lei chiama una “questione di genere”, vale a dire la “differenza […] tra come l’amicizia è intesa e vissuta tra donne e come invece è intesa e vissuta tra uomini”, questione che nel libro non viene affrontata. Non è però un’assenza per cui dover fare mea culpa, ma una scelta da rivendicare: la differenza tra l’amicizia maschile e femminile non è un problema filosofico ma, semmai, un problema empirico. Non sto negando che quella differenza ci sia, così come c’è tra l’amicizia greca e quella latina, tra l’amicizia degli europei e quella dei nativi americani, ecc. Il punto, però, è che una ricerca di antropologia filosofica dovrebbe tentare di individuare i nodi salienti, i tratti caratteristici del fenomeno indagato, al di là delle singole configurazioni. Ho quindi cercato di mettere in luce degli elementi che appartengono a ogni relazione amicale, a prescindere se riguardi uomini o donne. Per dirla in altri termini: l’obiettivo era far luce sulle condizioni di possibilità delle differenti relazioni, tralasciando quelle differenze in se stesse. Tra le altre cose, ho anche menzionato il genere come peculiarità in base alla quale possono prendere forma legami amicali, e tuttavia stabilire concretamente come ciò avvenga fa parte di un altro campo di indagine, un campo empirico. Ma la filosofia è una materia teorica e ho preferito non abbandonare i suoi confini.

All’assenza di questa prospettiva di genere è legata l’ultima critica a cui rispondere. Filosofia dell’amicizia sarebbe, in fin dei conti, maschilista (non è questa la parola impiegata, ma è meglio chiamare le cose col loro nome). Nelle righe finali, Michielin definisce il mio come un “modo di pensare in fondo meritocratico, per il quale per provare la vera amicizia occorre essere uomini autocoscienti e per ciò eccellenti”. Niente di più lontano dalla tesi del libro. Nel testo non viene mai utilizzata l’espressione “vera amicizia”, così cara a una tradizione – quella sì maschilista – che vuole distinguere i rapporti superiori da quelli inferiori. Al contrario, molte difficoltà che ho incontrato nella ricerca – e di cui Michielin rende conto in modo impeccabile – sono dovute proprio alla volontà di non tralasciare nessun fenomeno bollandolo come meno degno o marginale. Non c’è vera amicizia, ma relazioni amicali con tonalità differenti. In secondo luogo, in più parti mi sono sforzato di confutare l’idea che l’amicizia richieda l’eccellenza, cioè la stravagante convinzione di molti classici secondo cui solo i buoni, i moralmente irreprensibili, potrebbero fregiarsi del titolo di amici. Nessuna celebrazione, dunque, del “genio di Aristotele”: solo il tentativo di criticarlo, dato che è lui uno dei principali sostenitori di questa tesi “meritocratica”. Infine, la nozione di autocoscienza che figura all’interno di questo quadro non è la profonda – quasi metafisica – comprensione di sé del superuomo, ma qualcosa di ben più umile. È la capacità tipicamente umana di elaborare a parole i propri vissuti ed esperienze per dare un senso agli eventi. Operazione che sarebbe estremamente povera, oltre che noiosa, se a farla non ci aiutassero gli amici. E le amiche.

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