“Un massacro” uscì nel 2003 per i tipi di peQuod nella raccolta Comandò il padre. Dal momento che di recente abbiamo recensito il nuovo romanzo di Piersanti, La forza di gravità e che Comandò il padre è da lungo tempo fuori stampa, abbiamo pensato di ripubblicare almeno questo breve racconto, d’accordo con l’autore.
Accadde in gennaio, tanti anni fa. Abitavo in un paesino dell’entroterra marchigiano, sulla linea di confine tra le province di Pesaro e di Ancona. C’era la stessa nebbia gelata che c’è oggi, carica di odori pesanti. Gli odori e i fetori della terra non possono salire in alto, tutto è schiacciato, anche il freddo, l’umidità che gela. Quell’inverno aveva nevicato all’inizio di dicembre, e quasi tutta la campagna era coperta di neve ammucchiata dal vento. Si andava in giro in macchina a passo d’uomo, con i fari accesi e gli occhi spalancati; i fanali nelle strade erano sempre accesi.
A passeggio fino a sera soltanto ragazzi come noi, tra i dieci e i quattordici anni, tutti con la sciarpa annodata al collo dalle madri. Ma quel pomeriggio noi tre eravamo armati con fucili veri, nascosti in un vecchio sacco di juta, e avevamo le tasche piene di cartucce. Loris aveva un sovrapposto bellissimo, che il padre usava nelle gare di tiro al piattello. Ce lo mostrò orgoglioso dopo l’ultima curva fuori dal paese. Io e Andrea eravamo riusciti a trafugare soltanto le vecchie doppiette dei nonni, ma moltissime cartucce: corazzate, mezze corazzate, da otto, da dieci. Eravamo troppo bassi per portarli a tracolla, così camminavamo con i fucili in spalla, pronti a sparare.
La nebbia, stranamente, era più fitta in alto, sul cucuzzolo del paese, ma diradava via via che si scendeva, e già si vedevano da lontano i primi voli di gazze.
“Niente gazze” disse Loris, che era il capo, “sono uccellacci che fanno schifo e poi portano jella”.
Preferì scaldarsi sparando a un divieto d’accesso, che investito dalla corazzata sparì in una nube di polvere. Loris non si era neppure degnato di prendere bene la mira: aveva sparato impugnando il fucile con le mani, e per poco non gli sfuggì.
“La corazzata dà meno rinculo delle cartucce normali” ci assicurò, così anche noi ne provammo un paio contro un altro cartello, stavolta di divieto di caccia. A me il rinculo parve considerevole anche con la corazzata, e cominciò a farmi subito male la spalla. Ma non lo dissi mai, e quel giorno sparai tutte le cartucce che avevo rubato.
Loris aveva sentito dire dal padre che nei campi di un tizio stazionava un enorme branco di tordelle da diversi giorni. Mangiavano le bacche di tre o quattro alberi in fila sul canalone. Da un anno non si poteva più cacciare, in quella zona, e le tordelle lo avevano capito, non si avventuravano mai fuori dal canalone. Così diceva il padre di Loris, e risultò tutto vero.
Andammo a nasconderci in un vecchio capanno da caccia abbandonato, pieno di polvere e ragnatele.
“Si spara al tre” ci istruì Loris. “Uno, due e… anziché dire tre si spara. Capito? Se sono tanti anche due colpi a testa”.
La terra, attorno agli alberi delle tordelle, era tutta coperta di neve gelata, e per una decina di minuti non si vide neanche un uccello. Poi cominciarono a posarsi le prime tordelle, che saltavano nervose da un ramo all’altro.
Beccavano una bacca e subito cambiavano di ramo. Erano affamate. Loris ci ordinò di aspettare. Nel giro di un minuto gli alberi brulicavano di tordelle affamate. Molte beccavano le bacche senza neppure cercare di posarsi sui rami già stracarichi. Loris cominciò a contare, e al tre sparammo. Sei colpi in rapida successione, che provocarono come delle voragini di piume nella nube di uccelli. Ricaricammo e sparammo altri sei colpi, sul branco già in volo ma che non sapeva da che parte volare. Gli uccelli colpiti diventavano dei batuffoli informi e cadevano ovunque, sulla neve e sugli alberi. Intanto, quelli colpiti sugli alberi, continuavano a cadere. Qualcuno, ferito, cercava di restare aggrappato ai rami.
Nonostante le resistenze di Loris, che avrebbe preferito aspettare, io e Andrea ci precipitammo entusiasti sulle prede, inseguendo sulla neve le tordelle ferite che non riuscivano a riprendere il volo. Gridavano, perdevano sangue, trascinavano zampe spezzate e ali ciondolanti. Così ci accorgemmo della strage, e l’euforia cominciò a sfumare. Sangue, brandelli di uccelli. Loris ci raggiunse e catturò i molti uccelli feriti, con una rapidità sorprendente, come quando catturava le lucertole davanti alla chiesa. Li afferrava e li finiva spezzando i colli con un colpo secco.
“È una strage” commentò anche lui, ma senza soffrirne, “saranno almeno cento!”
Ammucchiammo le prede accanto al capanno e ci appostammo di nuovo. Io speravo di non rivederle più, non avevo più voglia di sparare. L’aria sapeva di polvere da sparo e di selvaggina, e le nostre mani erano sporche di sangue rappreso. Ma le tordelle tornarono, e noi sparammo di nuovo. E loro tornarono ancora una volta.
Stava cominciando a far buio quando andammo a prendere un grande cesto per la paglia nel cortile deserto di una casa colonica. Lo riempimmo fino all’orlo di tordelle, rinunciando a cercare quelle cadute nei cespugli, e risalimmo al paese sudando e senza parlare. Anche a Loris era venuta la malinconia. L’odore del sangue e degli uccelli mi dava la nausea. Inoltre, mi ero reso conto all’improvviso che non l’avremmo scampata.
“È un massacro” dissi a Loris senza guardarlo.
“Non so” disse lui. “Un massacro è quando spari ai cristiani”.
Fummo tutti pestati dai nostri genitori. Loris fu anche portato al pronto soccorso perché si era rotto la testa sul termosifone mentre il padre lo inseguiva.
Nel paese, per diversi giorni, pranzarono in molti con polenta e tordelle.
@ Claudio Piersanti