Riot – Sciopero – Riot o Riot – Rivoluzione – Riot?

Cos'è il riot oggi? Chi sono i nuovi rivoltosi? Una popolazione eccedente che il mercato del lavoro non può accogliere, un irredimibile sovrappiù destinato alla miseria e alla prigione, che alligna inoperosa nella sfera della circolazione, parimenti improduttiva e che non è cambiata dai tempi di Marx? C’è un solo modo per evitare la trappola dell’eterno ritorno dell’eguale: cambiare metodo d’indagine.

F. Braudel, G. Arrighi e K. Marx sono tra i referenti teorici più importanti di Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, di Joshua Clover (Meltemi). Così la rivolta è vista non nella prospettiva di una histoire événementielle ma in quella della lunga durata di Fernand Braudel[1]. E già questo è una novità considerando le caratteristiche della rivolta, di per sé frettolosa, sempre drammatica e soprattutto di breve respiro. Come il tempo di una fiamma o, al più, di una farfalla. È il motivo per cui preferiamo leggere il tempo della rivolta – magari pensando a Benjamin[2] – in una chiave antistoricista perché è proprio lo storicismo che ha in orrore l’evento mal sopportando che si spezzi il suo continuum affidato a una legge oggettiva che si fa beffe dell’azione umana. È il caso di Braudel[3] ma anche di Arrighi che lo segue a ruota con la sua teoria dei quattro grandi cicli sistemici dell’accumulazione capitalistica[4]. Ne viene fuori una storia del capitalismo – che sempre si identifica con uno Stato ché, Braudel docet, il capitalismo è lo Stato[5] – in cui di ciclo in ciclo tutto si ripete allo stesso modo. Come in natura. Ogni ciclo ha la sua primavera con l’investimento produttivo e il suo autunno con la speculazione finanziaria. Cambia lo Stato egemone ma il capitalismo resta, anzi di ciclo in ciclo matura e si espande senza che un qualche evento – fosse pure la rivoluzione – possa cambiarne il segno. E neppure i conflitti sociali e di classe, sempre “strettamente connessi alle lotte di potere tra gli stati”[6].

Sì, una lunga durata, questa di Arrighi, in cui non è difficile scorgere l’ombra del cammino della storia universale del vecchio Hegel.

Riot-sciopero-riot contempla una periodizzazione à la Braudel e una sequenza à la Arrighi. Come dire che non è una semplice storia della rivolta qual è ancora quella dello storico inglese E. P. Thompsonda cui Clover attinge a piene mani per costruire la sua teoria della rivolta[7]. Perché per Clover il problema è come pensiamo questa storia. La sua teoria ci evita il racconto dello storico obbligandoci a pensare la rivolta come il problema del nostro presente. E pensarlo in compagnia di Marx e del suo materialismo storico. In breve, “una teorizzazione pienamente materialista del riot”.

Che non significa, tuttavia, che soddisfi una sensibilità operaista come la nostra. Di quel Marx teorico della crisi del capitalismo infatti non c’è traccia[8].

Il Marx di Clover è invece quello di G. Arrighi: un Marx che teorizza la crisi nel suo rapporto con lo sviluppo senza la lotta di classe. Che significa che le categorie economiche utilizzate non sono mai figure politiche. Non lo è il profitto come non lo è il plusvalore sicché il capitale può presentarsi come mero rapporto con se stesso. E questo vale anche sul piano storico della lunga durata dove processi di valorizzazione e crisi sono esibiti come operazioni dell’intero capitale e mai del lavoro vivo. Così la famosa “contraddizione in processo” di cui parla Marx nei Grundrisse secondo Clover non sarebbe “altro che l’attuazione della stessa legge del valore, che si presenta sotto forme diverse”. E questo nonostante l’avvertimento dello stesso Marx a non trattare le categorie economiche nella loro generalità e astrattezza senza tener conto dei processi reali[9].

Per quanto riguarda la sequenza riot-sciopero-riot’ l’indice apposto ci dice che l’invito di Marx è stato invece accolto e infatti del riot si traccia la storia. Ma la seconda sequenza circolazione-produzione-circolazione cui la prima è giustapposta? Domanda più che legittima considerando che il riot ci viene presentato come la forma di lotta della circolazione. Lo sciopero lo è della produzione. Ha una storia, la circolazione? Stante lo straordinario sviluppo dei trasporti, sì. Dunque trasporti e circolazione. Un   tema vecchio che già a suo tempo Marx[10] aveva affrontato e sempre in termini squisitamente economici. E non poteva essere altrimenti considerando l’oggetto della sua analisi: le metamorfosi del capitale e il loro ciclo, e parlare dell’industria dei trasporti come causa – e solo come causa – dei costi di circolazione era semplicemente dovuto. Clover per la sua disamina del problema non si discosta da questo impianto. Nel suo caso però i conti non tornano perché il tema è squisitamente politico: pensare l’intreccio tra riot e circolazione oggi.

Nessun problema per l’altro intreccio, sciopero e produzione. Qui – Tronti – la forza lavoro, che è categoria economica par excellence, è anche figura politica per cui si capisce subito che quell’e indica una sintesi inclusiva che è anche disgiuntiva. Insomma, l’intenzione di Clover è chiara, non c’è bisogno che ce la spieghi e infatti non lo fa.

Ma riot e circolazione oggi? Chi sono i nuovi rivoltosi? Una popolazione eccedente che il mercato del lavoro non può accogliere, un irredimibile sovrappiù destinato alla miseria e alla prigione, che alligna inoperosa nella sfera della circolazione, parimenti improduttiva e che non è cambiata dai tempi di Marx. La tentazione di paragonarli ai rivoltosi che riempivano la piazza del mercato del XVII e XVIII secolo è forte ma non sarebbe giusto perché questi ultimi una qualche identità di classe ce l’avevano.

C’è un solo modo per evitare la trappola dell’eterno ritorno dell’eguale: cambiare metodo d’indagine. Il consiglio è di Marx[11]. Tutto cambia – scriveva – col mercato mondiale e col capitale sociale. Il nostro sguardo sul mondo deve cambiare ma per farlo abbiamo bisogno di inforcare altri occhiali e cambiare paradigma perché le classiche categorie economiche non funzionano più. Ad esempio non funziona più l’idea della separazione di produzione e circolazione. La nuova ipotesi è che a questo livello di sviluppo del capitale produzione e circolazione si integrino, che la circolazione sia sussunta nella produzione. La prova? Proprio l’industria dei trasporti che, dice Marx, “costituisce da un lato un ramo autonomo di produzione, e perciò una particolare sfera di investimento del capitale produttivo. D’altro lato, si distingue perché appare come la continuazione di un processo di produzione entro il processo di circolazione e per il processo di circolazione” [12].

Quanti gli hanno dato ascolto? Negri  e Bologna[13], Clover no.

Che le aporie e le incongruenze cui il Nostro va incontro parlando di riot oggi (riot’) discendano dalla sua idea di circolazione oggi (circolazione’) appare a questo punto evidente. Perché le aporie e le incongruenze sono tante e non riguardano solamente identità e composizione dei rivoltosi ma – uso di proposito il linguaggio filosofico della scolastica – la quiddità, il carattere stesso e più essenziale del riot: il suo essere forma di lotta della circolazione che non blocca il capitale né intende assoggettarlo.  Come non scorgervi la potenza destituente di Agamben[14], quella potenza che non si lascia mai realizzare in un potere costituito? E nella «comune», un concetto su cui tanto insiste, l’ombra della sua (sempre di Agamben[15]) comunità che viene?

Infine la diade riot’- sciopero, per nulla scontata e tutta da pensare.

Considerando che l’economia di produzione ha perso il suo primato a vantaggio della circolazione – questa la tesi – anche lo sciopero sarebbe uscito di scena per lasciare posto al riot’, risorto come per incanto dalle sue ceneri.  Verosimile alla luce dei fatti recenti e meno recenti. Solo che il XIX e il XX secolo portano ben altro segno che quello dello sciopero. Portano marchiato a fuoco il suggello della Rivoluzione. Clover non ne parla e la stessa parola «rivoluzione» è presente forse una, due volte. Ma non solo degli ultimi due secoli, della modernità tutta la Rivoluzione è suggello. Ha accompagnato l’età d’oro dello sciopero e pure quella del riot. Se l’opuscoletto della Luxemburg[16], ripreso nel libro, conserva ancora un pizzico d’attualità, è solo perché nella sua analisi sciopero e rivoluzione sono pensati assieme. Clover legge l’opuscolo e cancella la rivoluzione ignorandola. Non solo, la espunge anche dall’orizzonte storico della modernità sostituendola con lo sciopero. È grazie a questa translatio imperii che la sua teoria del ciclo riot-sciopero-riot’ in un qualche modo tiene.

Storicamente le cose sono andate diversamente perché la continuità lunga qualche secolo delle rivolte popolari è stata sì spezzata ma dalla Rivoluzione alla quale, già a partire da Cromwell, non è mai piaciuta la rivolta ridotta presto a jacquerie[17] perché troppo spontanea e di breve durata e incapace di organizzarsi di fronte alla reazione dello Stato e dei ceti dominanti; e perché troppo localistica nelle sue manifestazioni e inadatta a coordinarsi quando scoppia simultaneamente in più parti. E poi, ancora, perché barbara e furiosa, che spiana i castelli e scanna i signori brandendo roncola, forcone e Vangelo. Da mettere perciò sotto stretta tutela. A confronto, al malcapitato sciopero è andata decisamente meglio.

Con la Rivoluzione in campo si prospetta un ciclo un po’ diverso: riot-rivoluzione-riot’. Si dilata il tempo del ciclo della rivoluzione (’600-’900) e quanto al riot’, si apre una nuova stagione. Quell’indice ci annuncia che lo stato di minorità cui la Rivoluzione l’ha costretto per troppo tempo è finito e che altri tutori non sono più tollerati.


[1] F. Braudel, Scritti sulla storia, Mondadori Editore, Milano 1973

[2] W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi editore, Torino 1997

[3] F. Braudel, La dinamica del capitalismo, Il Mulino, Bologna 1983

[4] G. Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano 1996 e I cicli sistemici di accumulazione, Rubbettino Editore, Catanzaro 1999.

[5] F. Braudel, Afterthoughts on Material Civilization and Capitalism, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1977

[6] I cicli sistemici di accumulazione, cit., p. 69

[7] E. P. Thompson, Società patrizia. Cultura plebea, Einaudi editore 1981. I tre evidentemente meritano tutta la nostra considerazione e non solo perché nella loro professione di storici ed economisti qualcosa da dire ce l’hanno ancora oggi ma perché tutti e tre assieme sul metodo della critica storica hanno saputo dire la loro.

[8] S. Bologna, Moneta e crisi: Marx corrispondente per la «New York Daily Tribune in «Primo Maggio», n.1 giugno-settembre 1973 e A. Negri, Marx oltre Marx, Feltrinelli Editore, Milano 1979

[9] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, I, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 13

[10] K. Marx, Il Capitale, II, § VI, Editori Riuniti, Roma 1980

[11] Ivi p. 118

[12] Ivi p. 156

[13] A. Negri, Dall’”Estremismo” al “Che fare?” in La forma Stato, Feltrinelli Editore, Milano 1977S e S. Bologna, Di camion e di porti in Cesare Bermani (a cura di) Primo Maggio, DeriveApprodi, Roma 2010

[14] G. Agamben, L’irrealizabile, Einaudi editore, Torino 2022

[15] G. Agamben, La comunità che viene, Einaudi editore, Torino 1990

[16] R. Luxemburg, Sciopero generale, il partito e i sindacati, Libreria Editrice «Avanti», Milano 1919

[17] B. F. Porchnev, Lotte contadine e urbane nel “grand siècle”, Editoriale Jaca Book, Milano 1998