La rimozione del fascismo rumeno

E. M. Cioran, Mircea Eliade, Una segreta complicità: Lettere 1933-1983, Massimo Carloni e Horia Corneliu Cicortas (a cura di), Adelphi, pp. 300, euro 22,00 stampa                             Bernd Mattheus, Cioran: Ritratto di uno scettico estremo, tr. Claudia Tatasciore, Lemma Press, pp. 325, euro 22,00 stampa

Usciti quasi contemporaneamente due libri a loro modo complementari affrontano da prospettive distinte due fra i più ambigui e controversi intellettuali del Novecento, entrambi rumeni di nascita. Il primo, pubblicato da Adelphi, è la raccolta quasi completa dell’intenso scambio di lettere intercorso  dai primi anni Trenta ai primi anni Ottanta, fra Emil Cioran e Mircea Eliade;  il secondo, edito da Lemma Press, è una biografia dedicata al solo Cioran, ma in cui, per forza di cose, Eliade compare spesso sulla scena.

Una segreta complicità è il titolo dell’epistolario a cura di Massimo Carloni e Horia Corneliu Cicortas, e in effetti è innegabile che una stretta complicità abbia legato fin dagli anni giovanili il futuro filosofo e il fenomenologo delle religioni, e non si è trattato, come il libro assolutoriamente lascia intendere, di un semplice sodalizio intellettuale: è in realtà la segreta complicità di due omertosi che, in connivenza, vogliono occultare il proprio deplorevole passato. Cioran ed Eliade sono stati infatti per tutti gli anni Trenta e fino alla sconfitta dell’Asse nel 1945, fra i più infervorati seguaci del “Capitano” Corneliu Zelea Codreanu. Condreanu, nel 1927, era stato il fondatore della Legione dell’Arcangelo Michele, divenuta nel 1930 Guardia di Ferro, il movimento nazionalista, antisemita e antibolscevico, che all’insegna della camicia verde e del saluto romano, rappresenta la versione campagnola, religiosamente fanatica e ultraortodossa, del fascismo, e più ancora del nazismo, in Romania.

La responsabilità dei due è ancora più grave trattandosi non di contadini semianalfabeti, gretti bottegai, piccolo borghesi in cerca di affermazione o provinciali xenofobi, ma di intellettuali di raffinata cultura, poliglotti e cosmopoliti, lontanissimi per ambiente ed educazione dalla paludi del nazionalismo. La giovane età non è un’attenuante perché la piena maturità intellettuale è per entrambi estremamente precoce e perché la triste infatuazione politica non dura mesi ma decenni: dai primi anni Trenta alla fine della Seconda guerra mondiale, terminando non certo per virtù ma per necessità. Il loro impegno legionario e guardista inoltre, non si limita a un fiancheggiamento ufficioso e formale, ma assurge all’enfasi della missione mistica e palingenetica che implica non solo l’adesione intellettuale e propagandistica – svolta sistematicamente e con fervore sulla stampa rumena dell’epoca – ma anche l’assunzione di incarichi attivi e mansioni logistiche e finanziarie: una vera e integrale militanza politica (sui particolari in proposito è utile consultare il bel libro di Alexandra Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco: Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, Utet, 2008).

La sconfitta finale dell’Asse e del regime dittatoriale di estrema destra instaurato dal Conducator Ion Victor Antonescu, lo “Stato Nazional Legionario” strettamente legato alla Germania hitleriana, coglie Cioran borsista prima a Vichy e poi a Parigi, ed Eliade attachè culturale all’ambasciata rumena prima a Lisbona e poi a Londra. Incolumi e senza compromissioni troppo evidenti per chi non avesse conosciuto la lingua e la situazione rumena degli anni immediatamente precedenti, contando sulla difficoltà di reperire materiale originale rumeno in Occidente dopo la sovietizzazione del paese e durante la successiva dittatura di Ceausescu, i due ex legionari, per ricostruirsi una posticcia verginità, passano al sistematico insabbiamento del loro compromettente passato: una questione sostanziale soprattutto per il più ambizioso Eliade, che vedrebbe nel riemergere dei suoi deliri antisemiti la fine di una promettente carriera universitaria. Così l’accademico cancella sistematicamente le tracce del suo precedente percorso politico, scrive pagine e pagine di diari reticenti o corretti ad usum delphini, censura decine di testi ambigui, taglia i ponti con tutte le frequentazioni equivoche (il poligrafo filonazista e teorico del razzismo “spiritualista” e del tradizionalismo integrale, Julius Evola, per esempio, si lamenterà con lui per lettera di non essere più citato come una volta nei più recenti lavori scientifici su esoterismo e orientalistica: si può immaginare un sorrisetto sornione sulle labbra dell’autore del Trattato di Storia delle Religioni, che non rispose mai alla lettera). La rimozione di Cioran è ancora più radicale: cambierà addirittura lingua – cominciando a scrivere e pensare (addirittura sognare – dirà) in francese – e nome; non più Emil ma E. M. Cioran, come si firmerà sempre nel dopoguerra.

È piuttosto insolito che l’apparato di note e le due postfazioni che accompagnano l’epistolario si astengano quasi del tutto dal menzionare la spinosa questione e che la “segreta complicità” venga ridotta solo a una “bella amicizia” con qualche screzio occasionale, un “mutuo soccorso” e “un reciproco sostegno economico”. Tutto qui. I curatori del libro sembrano volere a loro volta farsi complici del “segreto” e della minimizzazione delle responsabilità dei due autori quando scrivono candidamente “per entrambi sarebbe funesto il ritorno in una Romania ormai sovietizzata”, “indignazione di quest’ultimo (Cioran) alla notizia che anche lui è stato licenziato dal nuovo governo romeno filo-alleato”, o quando nominano il pamphlet giovanile di Cioran La trasfigurazione della Romania senza minimamente chiarire quale “trasfigurazione” intendesse il futuro “apolide metafisico”. Una documentazione quindi largamente incompleta e faziosa che trascura e lascia taciuti gli aspetti più interessanti del rapporto tra i due, una correità e non una serie di garbati convenevoli o brillanti osservazioni: la rimozione complice e sistematica della memoria di un crimine perpetrato in comune.

Assai meno reticente da questo punto di vista è la biografia Ritratto di uno scettico estremo, opera dello studioso tedesco Bernd Mattheus, già autore di un monumentale saggio biografico su Georges Bataille, Georges Bataille. Eine Thanatographie, e di un libro su Antonin Artaud. Un saggista abituato ad affrontare personaggi estremi, dunque. Mattheus ha incontrato Cioran negli anni Ottanta, è stato ospite nella minuscola mansarda parigina che lo scrittore condivideva con la sua compagna francese Simone Boué, e ha lungamente dialogato con lui nelle due lingue che questi dominava meglio, il francese e il tedesco. Il ritratto dell’uomo e la dettagliata analisi delle sue opere lascia emergere una figura attanagliata da un disgusto per sé stesso e per il mondo che molto ha a che vedere con il senso di colpa. A differenza del “complice segreto” Eliade, del tutto narcisista e impermeabile a qualunque autocritica, Cioran rivela spesso, in modo più o meno esplicito, una messa in discussione del suo passato: “Così come del cancro si dice che non è una malattia ma un insieme di malattie, la Guardia di Ferro era un insieme di movimenti e, più che un partito, una setta delirante” (Apolide metafisico); oppure: “La quantità di imbecilli e di pazzi che ho ammirato! Quando penso al mio passato la vergogna mi sommerge. Tante infatuazioni che mi squalificano” (Quaderni 1957-1972). Mattheus sa ritrovare con cura passi significativi nella bibliografia dell’autore o dettagli spesso ignorati, per esempio l’eliminazione dall’edizione tedesca di Squartamento dell’aforisma: “Non appena si esce nella strada, alla vista della gente, sterminio è la prima parola che viene in mente”  (frase che ricorda molto da vicino quella di André Breton dal Secondo manifesto del Surrealismo, che tanto venne rinfacciata al poeta anche da Sartre che scrisse il racconto “Erostrato”, incluso ne Il Muro, proprio per ridicolizzarlo).

A proposito dell’opera giovanile La trasfigurazione della Romania, libro che ricevette i ringraziamenti e le congratulazioni di Codreanu in persona, Cioran ammette: “Avevo ventitré anni, ed ero pazzo come nessuno. L’ho sfogliato ieri; mi è sembrato scritto in una esistenza anteriore, e comunque il mio io attuale non si riconosce come suo autore. Il che dimostra quanto sia inestricabile il problema della responsabilità. Quante cose ho potuto credere quando ero giovane!” (Quaderni). Anche nei primi anni Settanta scrive al fratello di detestare la prima traduzione italiana de Le mauvais démiurge perché apparsa – prima della “riabilitazione” operata da Adelphi – con le Edizioni de Il Borghese, marchio ancorato alla cultura di destra: “Si ha un bel fare, non si sfugge al passato. Che idiozia!”. A dimostrazione però di quanto certe deformazioni ideologiche si incistino nel profondo, è significativo che, pur nella condanna a posteriori, Cioran utilizzi spesso criteri sostanzialmente nazionalisti ed etnici: “La Guardia di Ferro? I Demoni di destra, adepti dell’ortodossia ideologicamente opposta a quella di coloro che Dostoevskij aveva denunciato, ma psicologicamente molto simili. Fenomeno non romeno. D’altronde il capo della Guardia di Ferro era slavo” (Quaderni). Nel 1990 si lascia convincere ad autorizzare una nuova edizione rumena de La trasfigurazione della Romania, ma la espurga di numerose “pagine pretenziose e stolte” e sconfessa pubblicamente in dialogo con Eugène Ionesco la militanza guardista come una “vergogna intellettuale”. Così sulle sue giovanili Impressioni da Monaco, scritte nel 1934 durante una lunga permanenza nella Germania di Hitler, e piene di lodi sperticate per il nazionalsocialismo, commenta “La mia ammirazione patologica per la Germania mi ha avvelenato la vita. È stata la peggiore follia della mia giovinezza. Come ho potuto avere il culto di una nazione in fondo così poco interessante?” (Quaderni). Mattheus legge gli sfoghi letterari misantropici di Cioran, il suo esercizio dell’ingiuria, lo scetticismo sfrenato verso qualsivoglia dottrina, come la sublimazione di un inestinguibile senso di colpa ben espresso da questa dichiarazione tratta dai Quaderni: “Mi sono perso nelle Lettere per l’impossibilità di uccidere o di uccidermi. È stata solo questa incapacità, questa vigliaccheria a fare di me uno scribacchino”.

Invano si cercherebbero analoghe ammissioni nelle opere memorialistiche di Mircea Eliade dove la dissimulazione, la reticenza e l’elusività regnano sovrane: Saul Bellow, scrittore ebreo che di Eliade fu ambivalente amico negli anni della vecchiaia di entrambi, nel suo ultimo romanzo Ravelstein (2000), lo ricordò nell’ambiguo personaggio di Radu Grielescu: “Grielescu ti strumentalizza. Nel suo Paese era un fascista. Deve rifarsi una verginità. Quell’uomo era un seguace di Hitler” (…) “Non ricordi nulla del massacro di Bucarest, quando attaccavano la gente ancora viva ai ganci del mattatoio e la macellavano e la scuoiavano?” ”Sai che era seguace del Nae Ionesco che fondò la Guardia di Ferro. Non ne parla mai?” – “Qualche volta sì, cita Ionesco, ma per lo più parla dei giorni che ha passato in India e di come ha studiato con un maestro yoga” – “Quella è la sua fascinosa panzanata orientale. Tu sei troppo tenero con la gente, Chick. Ed è anche una cosa non del tutto innocente.., Tu sai che è un impostore. C’è un tacito accordo tra di voi due… Devo essere più esplicito?”.

Essere troppo espliciti sul passato di Eliade poteva essere pericoloso. Lo dimostra il misterioso e mai chiarito omicidio del suo brillante discepolo Ioan Petru Culianu (1950-1991), da lui designato a succedergli alla cattedra di Storia delle Religioni all’Università di Chicago. Il fatto di aver smentito e sbugiardato il suo ex maestro e mentore dopo la morte di lui nel 1986, rivelando ormai senza più infingimenti tutte le reticenze e le menzogne su un passato inaccettabile, è stato probabilmente considerato da qualche vecchio camerata un tradimento che – secondo l’etica della Guardia di Ferro – meritava una mortale vendetta: “Noi giuriamo di difendere l’onore e di punire i traditori a prezzo del nostro sangue. Che la maledizione di tutto il popolo cada su di noi se la nostra mano dovesse tremare” – così giuravano i legionari di Codreanu.