Quando Carlo Emilio Gadda gli telefonava – rigorosamente all’ora di pranzo –, la bistecca al sangue di Pietro Citati “intristiva, intirizziva, diventava gelida e indesiderabile”. La delicatezza del critico nel non rivelare all’Ingegnere un infortunio che lo avrebbe letteralmente portato sull’orlo della disperazione, era già evidente in questo (comico) episodio degli anni Cinquanta. E di aneddoti gaddiani Citati, scomparso all’età di novantadue anni, ne poteva raccontare a iosa. Poco dopo la laurea (alla Scuola Normale Superiore di Pisa), già consulente di Livio Garzanti, era infatti l’uomo di fiducia dell’autore del Pasticciaccio, verso il quale provava “un’immensa venerazione” per “tutto ciò che egli faceva o diceva o pensava o immaginava o fantasticava”. Testimone del sodalizio è il memorabile epistolario edito da Adelphi, Un gomitolo di concause. Lettere a Pietro Citati (1957-1969), in cui convergono al pari di fabliaux medievali “il passato, il presente, il futuro, la realtà, il sogno, il tragico, il comico, la colpa, il rimorso, l’immaginazione, il gioco, la follia”.
Nato nel febbraio del ’30 a Firenze, Citati inizia ben presto a collaborare con Paragone e Il Punto. Non essendo affiliato ad alcuna università, sulla scia di liberi cavalli di razza come Emilio Cecchi, lavora in qualità di critico militante al Giorno, dove dà il via alla sua sterminata produzione saggistica e pubblicista (nel 2006 è uscito il Meridiano Mondadori, La civiltà letteraria europea da Omero a Nabokov, a cura di Paolo Lagazzi, che ritaglia articoli e libri interi dalla vasta opera).
La vera dirittura della sua ricerca letteraria è però nel genere biografico, di cui diventa autentico maestro e riformatore: Goethe (Mondadori, 1970) riceve il Premio Viareggio, Vita breve di Katherine Mansfield (Rizzoli, 1980) il Bagutta, e Tolstoj (Longanesi, 1983) – che sapientemente esonda in una prosa romanzesca – addirittura lo Strega. Seguono Kafka (Rizzoli, 1987) e La colomba pugnalata. Proust e la Recherche (Mondadori, 1995), oggi tutti disponibili nel catalogo Adelphi, a completare la svagante idea di letteratura presentata da questo postmoderno Sainte-Beuve: l’ermeneutica parte dall’analisi minuta degli elementi della vita di un autore, i quali vengono tuttavia bruciati e oltrepassati dall’inventio del critico stesso, novello demiurgo.
In tal guisa, Citati non è e non potrebbe mai essere annoverato tra i rappresentanti di una reviviscenza della scuola storica (nonostante sia stato presidente della Fondazione Lorenzo Valla, nota per il rigore filologico nella riproposizione di opere classiche); il suo impegno è altresì legato alla costituzione e allo scandaglio psicologico di uno scrittore-personaggio di tipo trascendentale, cioè non riconducibile né all’esistenza nuda né alle bizzarrie della fantasia. Come precisa nel finale della Colomba pugnalata, “sebbene contenga delle pagine sulla vita di Proust, [il libro] non intende essere, e non è, una biografia”. La critica creativa promulgata da Citati – si pensi anche al Leopardi (Mondadori, 2010) o ai raccourcis di Il Don Chisciotte (Mondadori, 2013) – coincide così con l’indagine a tappeto di un testo che produce d’emblée un testo altro, lontano dall’essere suo gemello, eppure vicino nel mantenere rapporti di gemmazione, filiazione e comunione d’intenti. Un’operazione al limite della decostruzione derridiana, ma percorsa da uno stile sempre limpido, leggero.
Collaboratore a fasi alterne di Repubblica e del Corriere della Sera, studioso di miti umbratili e religioni esoteriche, fine osservatore della storia politica del nostro Paese, Citati lesse I promessi sposi a Gadda in punto di morte. Particolare non secondario. Negli gliuommeri e nei “frantumi del mondo”, con la “luce della notte” e sospeso tra “il silenzio e l’abisso”, anche nel ricordo dei Vangeli (2014) il suo interesse abbandona la “cornacchiante erogazione di teoremi storiografici” (qui è l’Ingegnere a parlare) per cogliere il paradosso, l’umorismo – nel senso di improvviso rivolgimento –, il mistero, la novità e il sottofondo di un messaggio che per lui non ebbe eguali: “La verità fondamentale per la quale sono stati scritti i Vangeli – Gesù è il figlio di Dio – non venne proclamata da Gesù morente o dai suoi discepoli o dalle donne di Galilea o da un ebreo convertito. Venne proclamata da uno straniero, che apparteneva al popolo dei persecutori, e certo guardava con ironia o indifferenza alle risse religiose di Israele: lo strano popolo che credeva (parola che egli non capiva) in un solo Dio, e non in una moltitudine colorata di dèi”.