Insieme alla Pena perpetua del titolo, Ricardo Piglia ci racconta incessantemente anche della sua fedeltà ammutinata alla letteratura. Ossimoro, quest’ultimo, che rinvia all’etichetta di “letteratura ammutinata” adottata – nell’omonimo saggio del 2018 – da Luis Gusmán (un altro autore argentino meritoriamente tradotto in Italia, dalle edizioni Arcoiris) e che ben rappresenta l’oggetto principale delle esplorazioni e delle ruminazioni di Piglia in questa, come del resto in qualsiasi sua altra opera.
Come scrive Agustín Conde de Boeck in un recente numero della rivista italiana “Pagine Inattuali”, liberamente disponibile in rete, gli scrittori “ammutinati” sono stati «trasgressori, parodisti, pazzoidi, responsabili (anzi, irresponsabili!) di vasti progetti di scrittura che, con maggiore o minore diffusione internazionale, hanno funzionato da fari assiologici per la letteratura argentina e latinoamericana, nodi di tensione e base per lo sviluppo di un intero sistema di valori estetico-politici». Insieme a Héctor Libertella e Leónidas Lamborghini, Piglia è certamente uno di loro, anche se Pena perpetua ha poi il ritmo più compassato – almeno in uno dei testi che lo compongono, “Incontro a Saint-Nazaire” – di uno scritto redatto durante il soggiorno di tre mesi presso la Maison des écrivains et des traducteurs nella cittadina portuale della Loira citata nel titolo.
Inoltre, sia questa nouvelle sia la precedente, “Pena perpetua”, sono raccontate da due personaggi che sono autori a propria volta (Emilio Renzi e Stephen Stevensen) ma che non si limitano a svolgere la funzione di alter ego dell’autore: Stevensen, ad esempio, è intento a spiare un altro personaggio, che si chiama, appunto, Ricardo Piglia; Emilio Renzi si impegna a riscrivere l’opera del suo altrimenti sfuggente mentore Ratliff. Lo sdoppiamento è insomma continuo – derivando, a tutti gli effetti, dalla duplicità della “fedeltà ammutinata”, in quanto ossimoro – e non di rado straniante; ad esso si accompagna anche un inseguimento che non è mai risolutivo, se non di per sé, in quanto, appunto, inseguimento di un altrove.
Ad accomunare i due testi (in un dittico che, del resto, si presenta come un’ennesima forma di sdoppiamento) è la speculazione sulla forma-diario. A questo proposito, c’è un’opera monumentale di Piglia che attende ancora traduzione italiana, Los diarios de Emilio Renzi, nella quale l’autore delega alla propria creatura finzionale quella che resta per buona parte, in effetti, una finzione, come la scrittura diaristica. Per fare un esempio, Stevensen è convinto che il diario sia una forma di oracolo, capace di predire il futuro. Quello che succederà, però, succederà in primo luogo sulla pagina: la letteratura può ammutinarsi, ma non lo farà necessariamente in favore della vita che scorre fuori dai libri, dovendo comunque restare sempre fedele a sé stessa. Accade così di leggere, tornando al primo testo, alcune righe di particolare intensità, inizialmente nate a proposito di Flaubert e della spossante ricerca della perfezione linguistica che nutre Madame Bovary: «Il romanzo moderno è un romanzo carcerario. Narra la fine dell’esperienza» (la deviazione dalla “povertà dell’esperienza” benjaminiana, tra l’altro, c’è, e non è una deviazione da poco).
A distanza di poche righe si trova poi un paragrafo di rara bellezza, che conviene riportare per intero: «Bisognerebbe essere esterni al mondo del carcere, dice Steve, per interessarsi ai racconti dei detenuti. Ma giustamente questi racconti sono destinati a chi, a sua volta, si trova in prigione. Ecco un altro aspetto che li differenzia dall’arte del romanzo: le storie personali si devono raccontare solo agli estranei e agli sconosciuti». Il breve paragrafo è anche, in sé, la dimostrazione della grande perizia raggiunta da Piglia sulla misura brevissima, come si può apprezzare nella sezione da cui è preso l’estratto (la prima di “Pena perpetua”) o anche nel “Diario di un folle” che chiude “Incontro a Saint-Nazaire”. Il paragrafo, specie se dotato di una sua forza gnomica, è una misura che, in fondo, imita quella dell’appunto diaristico, potendo inoltre condensare in sé una tale forza da apparire, in ultima istanza, la strategia di formalizzazione più adatta per rappresentare la massima forse più luminosa dell’intero testo: «La letteratura è una forma privata di utopia».