C’era una volta il lavoro culturale

Luciano Bianciardi e l’intellettuale engagé

Il lavoro culturale di Luciano Bianciardi è un libro senza tempo. O meglio, un libro di un tempo ben definito, che nello squallore dell’oggi ci pare distante e remoto come una stella, illuminante come un classico. Si tratta di un volumetto di un centinaio di pagine, lucido e incisivo, venato d’una godibilissima ironia, che all’epoca (correva l’anno 1957) il neonato editore Giangiacomo Feltrinelli ebbe l’intuizione e la lungimiranza di pubblicare.

Il contenuto è presto detto: un resoconto empatico e sofferto della formazione intellettuale della generazione antifascista del dopoguerra, uscita dalle macerie fisiche e morali d’un conflitto devastante, impegnata nella ricostruzione e costituzionalmente fiduciosa in un radicale rinnovamento della società, della politica, del concetto stesso di cultura, e rimasta poi segnata in profondità dal naufragio delle speranze che l’avevano animata. Un’analisi sagace, persino spietata nel suo sguardo graffiante, resa con una forma ibrida, quasi sperimentale. Bianciardi elabora infatti un’originale modalità narrativa per superare gli ormai abusati canoni realistici della rappresentazione, mescendo il ricordo autobiografico – anche contaminato da elementi di finzione, per esempio lo sdoppiamento con un fratello immaginario – con il saggio di costume, rivisitando un genere letterario a quel tempo desueto, la satira, e amalgamandolo con un altro allora in auge nella cultura di sinistra, il pamphlet, reimpiegato però non già per magnificare le sorti di un’ideologia vincente, bensì per operare uno scavo approfondito nelle ragioni di una sconfitta, umana e sociale. Tutto ciò reso con una prosa ordita dalla sapiente mescolanza di registri, dal saggistico, al narrativo, al giornalistico: ecco dunque servita una pietanza letteraria sapida e innovativa.

Sin dalle prime pagine appare chiaro il pòlemos bianciardiano, con la divertita e serrata digressione sugli eruditi locali (siamo a Grosseto), i “sapienti dotti e intellettuali” per i quali “contavano i documenti e basta”. Individui sempre pronti ad accapigliarsi su inutili diatribe pseudo-accademiche, espressione di una cultura passatista e distaccata dalla realtà, che si raccolgono nel “salotto letterario” della signora Olga, descritto con inarrivabile vis comica. All’aridità di questi vizzi studiosi dediti a “sterili e goffe pidocchierie” e in preda a “furori antiquari”, a cui si accompagnano vacui artisti autoproclamatisi tali, si contrappone l’entusiasmo di un gruppo di giovani, aperti alle novità, consacrati ad un’intensa attività culturale alimentata dall’impegno civile e politico, tesi all’affermazione di nuovi modi di essere. Ed ecco comporsi il ritratto di attivisti impegnati a fondare circoli artistici e cineclub, organizzare dibattiti, seminari, conferenze, mostre, rappresentazioni teatrali, rassegne cinematografiche, insomma a diffondere cultura ed allargare il raggio di consapevolezza politica alle larghe fette della popolazione che ne erano escluse, decisi ad intervenire in prima persona nel fare di una repubblica appena nata discettando problemi, ponendo istanze, proponendo soluzioni: insomma dei giovani che, udite udite, progettavano il futuro. È la “generazione bruciata”, decisa “a rompere con le tradizioni e a rifare tutto daccapo”, che al contempo “si rivolgeva anche contro i benpensanti della città”, la loro “bovina cretineria”.

Attraverso le tappe di una Bildung individuale e collettiva si mette quindi a fuoco la nascita e la formazione di una figura che acquisirà una certa rilevanza, l’intellettuale di provincia (qui raffigurato nell’immaginaria figura del fratello della voce narrante, Marcello), e la comunità in cui matura ed opera, appunto la Grosseto del dopoguerra, configurata come modello d’una provincia italiana pervasa da nuovi e fruttuosi fermenti culturali, politici, sociali, dopo la paralisi del ventennio fascista: “Nella nostra città si poteva ricominciare tutto daccapo, e in Italia, quanto a cultura (ma anche per il resto) c’era proprio gran bisogno di ricominciare tutto daccapo”. Una formazione rapida e nondimeno profonda, rispecchiante quella d’un’intera nazione che si affacciava alla modernità con gioia e vitalità oggi inconcepibili.

Tramite la voce che narra gli eventi con sguardo dissacrante ma sempre partecipato, tratteggiando con piglio filologico luoghi, storie, tipologie umane ormai scomparse e personaggi memorabili (come quel sacerdote dalla brillante oratoria, che dopo aver suscitato nelle sue parrocchiane pianto e dolore evocando con straordinaria vividezza la flagellazione di Cristo, le tranquillizza con queste parole: “Via, figliole, non piangete così. Quello che vi ho raccontato è successo tanto tempo fa, e forse non è nemmeno vero”), si delinea il quadro vivo e articolato di una città colta nel delicato passaggio della modernizzazione, un mirabile spaccato storico e sociologico dell’Italia di quegli anni. E in questo percorso la provincia di Bianciardi muta di segno: da luogo tradizionalmente arretrato e retrivo viene a configurarsi come frontiera del progresso, dove le forze riformatrici hanno l’agio di sperimentare modi alternativi di essere, una rinnovata socialità fondata sull’impegno politico e civile, sulla solidarietà. La provincia diviene il termine positivo – in ogni senso – della polarità istituita con la grande città: “La provincia, culturalmente, era la vera novità, l’avventura da tentare.” Al contrario, Roma, “piena di facili promesse”, sede di tanti intellettuali, era una “città parassitaria” che “succhiava la provincia, per vivere di splendida rendita”. A Milano invece, sentita come lontana, “vicino alla Svizzera”, sede di grandi imprese, di fabbriche, di traffici, gli intellettuali “sparivano dietro a un grosso nome, e diventavano funzionari di un’industria, tecnici della pubblicità, delle human relations, dell’editoria, del giornalismo. Cessavano di esistere come clan, come corporazione, come grande famiglia; non erano più il sale della terra, i cani da guardia della società, i pionieri dell’avvenire, gli ingegneri dell’anima.” Sono parole, queste, straordinariamente avvertite, soprattutto se si considera quando vennero scritte: qui Bianciardi coglie in divenire un problema culturale che si sarebbe manifestato in tutta la sua gravità soltanto anni dopo, di cui oggi percepiamo tutte le tragiche conseguenze, e che sarà il sofferto tema del suo esordio narrativo, dal titolo quanto mai allusivo, L’integrazione, apparso nel 1960, e del secondo romanzo, il celebre La vita agra, che vide le stampe nel 1962. La trilogia bianciardiana ci appare oggi un documento magistrale della storia sociale del nostro Paese, una riflessione acutissima su un momento di passaggio di una società che da una tradizione per più d’un verso ancora arcaica si gettava ciecamente nella fagocitante modernità di un boom economico che ne avrebbe stravolto i connotati.

Ma torniamo al nostro libro. Per conferire forza al capovolgimento del paradigma centro/periferia, Bianciardi istituisce un paragone pregnante tra la sua Grosseto e Kansas City, tra la provincia italiana e quella americana, con un aperto richiamo al valore innovativo del cinema, della musica (in particolare il jazz), della letteratura degli Stati Uniti, mettendo a frutto l’attività di traduttore, quindi di mediatore di cultura, e la lezione di Pavese e Vittorini, il loro tentativo di apertura culturale nell’asfittica gora italica. Hemingway, Steinbeck, Caldwell, Saroyan e altri scrittori sono evocati, se non espressamente menzionati, il loro insegnamento, la ricerca umanistica e sociale condotta nei tanti recessi d’America rammemorati.

Ad ogni modo, la frizzante e colta rivisitazione del passato recente, personale e collettivo, si muove lungo il solco del Partito comunista italiano, all’epoca impegnatissimo a radicarsi nei gangli vitali di città e province, a formare culturalmente e ideologicamente una popolazione gravata da secoli di ignoranza e prostrazione, a rivendicare per gli esclusi diritti sempre negati. Appunto, il “lavoro culturale”, entità oggi ectoplasmatica di cui si sta smarrendo anche il ricordo, che lo scrittore grossetano coglie sul nascere e nel suo divenire, restituendocela con sincera adesione ma anche con penetrante ironia, spia del distacco necessario per una equilibrata e lucida valutazione della materia narrata. Qui infatti interviene l’altro obiettivo della critica bianciardiana, insieme al rifiuto radicale dell’aristocratismo culturale. Non è tutto oro quel che luce, Bianciardi non sarebbe quell’arguto intellettuale che conosciamo se non avesse colto e problematizzato tare, zone d’ombra, punti deboli della temperie in cui si formò. Ed ecco allora comparire i formalismi, i miopi indottrinamenti, le dogmatiche direttive che giungevano dall’alto a soffocare il fervore e l’entusiasmo giovanili, ecco le caratteristiche figure degli intellettuali di partito, gli “educatori delle masse” grondanti ideologia, i burocrati di sezione giunti dalla capitale, irrigiditi in un sapere schematico che li allontana dalla realtà umana dei lavoratori che pure si prefiggono di difendere, personaggi tratteggiati con la maestria del narratore di razza. Nella sottile ed esilarante analisi del loro linguaggio, della codificata gestualità con cui si esprimono, della sprezzante superiorità con cui ammantano i loro insegnamenti, Bianciardi denota una notevole padronanza filologica, una preparazione culturale a tutto tondo (acutissime alcune analisi di critica letteraria, cinematografica, di economia politica) e un talento narrativo squisitamente comico. E pagina dopo pagina, accanto all’entusiasmo giovanile si profila la delusione che segnò lui e un’intera generazione, quando infine giunse lo scontro ineludibile con una realtà ben più complessa di quel che ci si era raffigurata.

La crisi adombrata dietro queste pagine, che pure hanno il dono della levità, è certo anche personale. La tragedia di Ribolla (1954), in cui persero la vita quarantatré minatori, uomini che Bianciardi conosceva personalmente e per i cui diritti si era battuto con ogni mezzo, segna una ferita che non si rimarginerà. Con il dolore della perdita, dell’assurdità di quelle morti, la rabbia per una tragedia prevista ed evitabile, Bianciardi prese coscienza dell’impotenza del suo ruolo di intellettuale: la cultura che aveva messo al loro servizio (denunciando con saggi e articoli le inumane condizioni di vita e di lavoro, percorrendo le campagne del Grossetano a distribuire libri, quand’era direttore della biblioteca della sua città, lottando contro l’analfabetismo e diffondendo una coscienza di classe) non era servita a migliorarne le condizioni, e nemmeno a salvarne la vita: quelle vittime erano la lancinante prova di una sconfitta, dell’impotenza dell’intellettuale in un mondo strutturato da un feroce sistema capitalistico.

Ma la crisi personale s’inscrive nel quadro di quella più ampia determinatasi nella sinistra italiana dopo i fatti d’Ungheria, che ne provocarono un ripensamento delle coordinate politiche, umane, sociali, s’inserisce nell’acceso dibattito sui rapporti tra politica e cultura, qui affrontato non solo nei termini della conflittuale relazione tra intellettuali e partito, ma anche, come si è visto, nella polarità centro/periferia. E mentre perlopiù ci si smarriva in dispute ideologiche drammaticamente lontane dai bisogni del popolo, l’anticonformista Bianciardi appuntava il suo sguardo penetrante sugli anni appena trascorsi per suggerire che lo scacco subito nel microcosmo provinciale era lo specchio della parabola involutiva di una generazione che aveva cercato di indirizzare culturalmente e politicamente la costruzione della nuova repubblica.

Il libro si chiude con una nota ironica che non stempera l’amarezza, la nostalgia, finanche i sensi di colpa: anzi li drammatizza, soprattutto con l’aggiunta di un ultimo capitolo, “Ritorno a Kansas City”, nell’edizione del 1964. A conti fatti, sono ben magri gli esiti di cotanto fervore, dell’impegno appassionato, della dedizione alla causa della cultura. Già prima della metà degli anni Cinquanta Grosseto era rientrata nei ranghi, la carica innovativa era stata riassorbita dal conformismo, tutto era regredito nell’angusta nicchia del privato, nella sfera pubblica dal rancido sapore Biedermeier. La sconfitta viene condensata in semplici frasi che cadono come una pietra tombale sui sogni di riscatto e di rinnovamento: “Fu una stagione intensissima”, “Da allora sono passati cinque anni, e la nostra città è tornata tranquilla.” Una tranquillità che suona come un rigor mortis: situazione che pare rimandare inquietantemente al nostro morto tempo, pur nelle intervenute differenze, dopo il furore iconoclasta della generazione sessantottina, delle battaglie civili per la rivendicazione dei tanti diritti negati, degli anni di sangue delle stragi e del terrorismo armato.

Nondimeno, a rileggere queste pagine rimane stentoreo l’insegnamento più profondo lasciatoci da Luciano Bianciardi: la fede nella forza emancipatrice della cultura, una cultura intesa non come privilegio di classe ma come percorso di crescita umana e sociale aperto a tutti, in grado di formare cittadini consapevoli, liberi e con eguali diritti, segno imprescindibile della democraticità del vivere civile. Ma con l’intima consapevolezza che, sprovvista di un sincero e compenetrato senso di solidarietà sociale, la cultura rimane uno sterile artificio, una carriera come un’altra. È da questa distanza siderale, del sentire e cronologica, che promana il fascino intatto di un libro che val bene una lettura, la sua lezione morale che ci giunge fresca e forte, come appena scaturita.

(Il lavoro culturale è sempre stato pubblicato da Feltrinelli, fin dalla prima edizione del 1957; riedito più volte fino al 1974, nella sua storia editoriale c’è una lunga parentesi che dura fino al 1991, quando torna in stampa dopo sedici anni. Da allora è stato regolarmente ripubblicato, fino all’ultima edizione risalente al 2013.)