Eccoci alle prese con il mito e le sue ciclicità, niente a che fare con il tempo che noi – terrestri dall’approccio spesso inerte di fronte ai grandi eventi – vediamo esordire dall’alba al tramonto. Se i Greci dicevano cose smisurate sul mondo degli Dèi, e ne erano posseduti tanto da custodire, da par loro, il senso del mito e farlo ribalzare fino ai posteri, sembra che oggi nulla di più si possa attuare oltre ad aprire i quaderni, sfogliarli e rileggerli. Che vuol dire “tradurli” perché si possa ancora, pur nella debolezza che ci contraddistingue, parlare.
Giuseppe Conte scriveva che occorre combattere il silenzio, la nostra solitudine planetaria, e corrompere la sospensione dell’anima sulla terra. Ermes scortava, guidava, ma percepirlo è stato sempre più complicato, o più semplicemente ai moderni non gli è più fregato nulla di quella presenza. Per questo i poeti, o almeno una gran parte di essi, avendo ancora appuntamenti con il mito sono diventati invisi ai più, mentre il loro segnale ha trovato vari contrasti nell’uscire allo scoperto. Non ci sono state scaltrezze tali da salvarci, anzi potremmo dire che l’invisibilità data agli dèi ha sancito la condanna.
Che altro agire, dunque, se non volgere l’attenzione alle fonti? E in questo viaggio agguantare al volo i poeti che a tratti hanno saputo accomunarsi a certe passioni, lontani dagli sguardi contabili. Certe cose sono invendibili, e proprio lì Bianca Sorrentino ha scorto figure note e meno note del Novecento che con fatiche e spiriti vari hanno richiamato cognizioni andate perdute, eredità che smemoratezze infelici hanno luttuosamente rasato.
Un’introduzione di temperamento lampeggia sulle urgenze poetiche che hanno varcato l’anacronismo dell’epoca, da Pavese a Brodskij, da Ritsos a Mandel’štam, da Herbert a Calvino. La frequentazione dei classici a qualcuno ha salvato la pelle, ad altri ha permesso di viaggiare controvento su onde lunghissime che hanno intersecato decine di secoli. All’inizio incontrovertibile segue la rassegna degli autori che Sorrentino, educatamente, presenta incrociandone l’opera con le forze che stanno alle loro spalle: i sovrabbondanti dèi ed eroi che impazienti non omettono nulla. E non accontentandosi del già visto, traduce senza compiacere troppo chi l’ha preceduta. E neppure l’oggetto della traduzione.
Ci si accorge di una certa austerità, la si apprezza dove riesce a traslare le parole da un campo all’altro, da un’era all’altra allargando gli spiragli del tempo, facendo propri nella propria carne le complessità e le circostanze anatomiche delle diverse lingue. Seguendo il corso del libro ci si sente improvvisamente industriosi, in grado di resistere alla prevalenza dell’argomento, l’ambizione di ampliare la conoscenza prende campo come se si ascoltassero il vero ricordo e la vera vicissitudine dei poeti novecenteschi.
Del resto Sorrentino sa ricostruire mente e corpo di ognuno, restando all’ombra degli Antichi. È questa ombra, che sembrerebbe solida, a rivelare l’insuperabilità di Kavafis, Cvetaeva, Borges, Glück, Spaziani, Pasolini, Plath. E la consistenza di autori poco noti (Castellanos, Clifton, Müller), ma che qui scontano una volta per tutte la loro semi-invisibilità. Le figure del mito, chiamate a raccolta da Sorrentino, si scrollano di dosso la stanchezza portata dal lungo sonno, e riprendono con un certo buonumore l’avventura amorosa davanti alle soglie delle nostre case.