Nel 1982, all’età di 23 anni, il futuro scrittore William Vollmann lascia gli Usa e si imbarca su un aereo diretto in Pakistan, con l’intenzione di raggiungere l’Afghanistan. Il suo scopo è aiutare in qualche modo la resistenza contro l’invasore sovietico: le sue intenzioni nebulose vanno dalla possibilità di prendere parte in prima persona ai combattimenti, fino al più realistico réportage di guerra. Per precauzione porta con sé una quantità di pellicole fotografiche che nella sua immaginazione diventeranno un “Afghanistan Picture Show”, una mostra figurativa sulla realtà del paese centroasiatico da portare magari in tour per raccogliere fondi da inviare ai profughi — o ai combattenti.
Le sue intenzioni volenterose e altruistiche si scontrano immediatamente con una realtà insospettabilmente dura. Innanzitutto i profughi sfollati in Pakistan, appena capiscono che lui è statunitense, immaginano disponga di poteri illimitati, in particolare la capacità di far ottenere loro il visto d’ingresso per gli USA: per il quale servirebbe naturalmente una fidejussione di migliaia di dollari, ma tutti credono che il diniego sia una mancanza di volontà del “giovanotto” (così si riferisce a se stesso nel testo, in terza persona, Vollmann). A causa questa incomprensione culturale di fondo, la sua avventura si risolve per sua stessa ammissione in una serie di sconfitte, delusioni e amarezze che creano solo problemi a chi viene in contatto con lui. Così trascorre alcuni mesi nel Pakistan nordoccidentale, a Peshawar e dintorni, dove si trovano diversi campi profughi gestiti da svariate organizzazioni, nell’attesa che il generale afghano N. gli procuri la possibilità di oltrepassare la frontiera insieme a uno dei gruppi combattenti. Intervista diversi operatori, visita i campi, scatta fotografie per il suo Afghanistan Picture Show, beve in continuazione lattine di sprite che tutti comprano per lui perché ha la necessità di idratarsi in questo clima devastante. Per tutta la permanenza in Asia è funestato da una dissenteria che gli toglie le forze, simbolo della totale incomprensione tra due mondi e dell’impossibilità di un aiuto vero, diretto, da persona che vuole rendersi utile a persone che ne hanno bisogno. Inoltre, la resistenza è divisa in diatribe politiche anche accese, e qualsiasi tentativo di portare, oltre alle armi, un principio di democrazia si scontra con la tradizionale struttura sociale di un paese che (qui, si rende conto, i sovietici non hanno torto) ha ancora un forte retaggio medievale: per esempio, liberare la donna da una sottomissione atavica significa scardinare un equilibrio che seppur anacronistico, si regge da mille anni.
La verità è che il caldo, le sue malattie, e peggio ancora il suo scopo, che richiedeva binari così dritti e perfetti su cui viaggiare dato che qualunque cosa lo faceva deragliare, avevano prosciugato la determinazione che aveva. Non poteva più fare nulla di nuovo. Per un triste paradosso stava diventando sempre più simile all’immagine che si era fatto della gente che intendeva salvare. Era lui a essere smarrito, perplesso, assetato, e così lontano dalla sua terra…
Come le opere successive, anche Afghanistan Picture Show è una commistione tra fiction e réportage: anzi, è una storia vera raccontata come se fosse un romanzo. L’autore stesso diventa il giovanotto, un personaggio raccontato in terza persona, che va in giro a scattare foto e rivolgere domande ai responsabili dei campi profughi, delle organizzazioni internazionali o dei partiti combattenti, per tornare sempre alla stessa questione: «Di cos’è che avete più bisogno?» Dal momento che nei campi si gode di un buon livello di assistenza sanitaria (migliore di quelli dei cittadini pakistani, tra l’altro) e gli alimenti arrivano con una certa irregolarità, quasi tutti chiedono armi per combattere l’invasore. Ma qui sta il nocciolo del problema: Vollmann sembra giungere alla conclusione che il governo del suo paese non abbia un interesse immediato alla vittoria dei mujaheddin, perché più la guerra si prolunga più l’Urss rimane impantanata nel suo Vietnam centroasiatico.
minimum fax ha avviato un piano editoriale di traduzione di opere di Vollmann inedite in Italia (come I fucili (2018), dal ciclo dei Sette sogni) e ristampa di fuori catalogo, come Storie della farfalla e La camicia di ghiaccio, usciti nel 2019. Gli appassionati possono continuare a leccarsi le dita, perché in futuro dovrebbe arrivare la ristampa di I Racconti dell’arcobaleno, già pubblicato da Fanucci nel 2001, e la nuova traduzione della raccolta di racconti The Atlas, oltre al réportage Poor people.