Il punto interrogativo domina questo volume fin dal titolo, che traduce in termini diversi la grande domanda di fondo: si può dire qualcosa di nuovo su Kafka? O meglio: Kafka può dirci qualcosa di nuovo? A questi quesiti tentano di rispondere novantanove reperti (è questo anche il sottotitolo del corpus kafkiano qui tradotto e presentato al pubblico italiano sulla base dell’originale curato nel 2012 da Reiner Stach, studioso quasi esclusivo dell’autore praghese, cui ha dedicato una biografia in tre volumi uscita nell’arco di dodici anni, dal 2002 al 2014), presentandoci volti insoliti di uno scrittore conosciutissimo, la cui vita e la cui opera sono state scandagliate fin nelle pieghe più riposte da legioni di critici e biografi.
Angolazioni nuove: brani brevi o brevissimi, tratti dalle fonti più disparate, corredati di commento e illustrati da immagini curiose o inedite (due fotografie su tutte: una scattata a Brescia nel 1909, l’altra a Merano nel 1920, immagini di folle anonime che acquistano d’un tratto un’aura di fascino quasi sacrale, poiché è possibile e anzi probabile che in esse sia ripreso anche Kafka), a costruire un percorso eccentrico, una passeggiata nei meandri di una personalità e di un’esistenza affascinanti almeno quanto la scrittura che esse hanno prodotto. Raggruppati per argomenti generali («Segni particolari», «Emozioni», «Leggere e scrivere» e così via) che sono soprattutto un pretesto, i singoli capitoli coprono un arco cronologico lungo quanto la vita di Kafka, dai ricordi d’infanzia e dai frammenti della sua giovinezza, su su, fino alla sua morte e all’Elogio funebre di Milena, la donna che forse fra tutte gli fu più vicina, con cui si chiude il volume.
Di sorpresa in sorpresa: e così, nelle tre righe del suo primo documento autografo conservato, una cartolina che lo scrittore diciassettenne inviò nel 1900 da Triesch in Moravia, dove si trovava in vacanza, alla sorella Elli, allora undicenne, già si rivela in nuce il gioco di Kafka con i modelli: Stach individua nella formula di apertura «Piccola Ella» il riferimento a Peter Altenberg, il grande scrittore dello Jungwien, la cui opera è un’epitome della frammentarietà e della leggerezza che si consuma nella boème di un’esistenza condotta tra i caffè viennesi e la strada: «Piccola Ella» è il titolo di un testo contenuto in Ashantee, volume di schizzi e brevi prose uscito nel 1897. Al tempo stesso si rivela quella capacità visionaria di trasformare e trasfigurare gli eventi reali in arbitrio in cui tuttavia si rivelano verità più profonde. «Che aspetto hai? Ti ho già del tutto dimenticata, quasi non ti avessi mai dato una carezza», scrive Kafka alla sorella: ed ecco che le connessioni più strette di un mondo divenuto improvvisamente incerto sfumano nella nebbia di un ricordo, ma un ricordo che si è perduto e non si ha più, e che quindi deve essere di nuovo inventato.
Oppure come nell’episodio di cronaca in un trafiletto del Prager Tagblatt del 31 dicembre 1899, in cui si racconta di un tale Joseph Kafka, «operaio di Rotoř nei pressi di Čáslav», che si è presentato presso l’Istituto di Assicurazioni contro gli Infortuni e, «poiché la sua istanza è stata respinta […] ha preso a insultare i funzionari, scaraventando sedie tutt’intorno e minacciando con un coltello a serramanico gli inservienti accorsi sul posto»: quanto contrasto, nello specchio inquietante di quel disgraziato dal cognome identico al suo, con le parole di Kafka, che di mestiere faceva l’assicuratore, e con casi analoghi aveva a che fare ogni giorno e che così li descrive a Max Brod: «Come sono umili queste persone. Vengono da noi supplicando. Anziché assaltare l’Istituto e fare a pezzi ogni cosa, vengono a supplicarci»; eppure, al tempo stesso, quanta intima coerenza con la vicenda del «suo» Joseph Kafka: con la violenza latente o esplicita che Josef K. sperimenta nel più celebre romanzo di Kafka, Il processo.
Ma non vi è soltanto questo, nel libro, e non soltanto sorprese: vi sono aneddoti noti e meno noti, ed episodi che rafforzano il «mito» di Kafka e insistono sulla vertiginosa corrispondenza tra la sua scrittura e la sua vita, commenti e postille a testi celebri come «Desiderio di essere un indiano» o «Nella colonia penale», o le versioni abbozzate e alternative della «Lettera al padre» o il primo schizzo del Castello, così come vi sono altrettanti brani che smontano questa costruzione mitica e riportano l’autore praghese a una dimensione di quotidianità, nella quale sono assenti gli assilli dell’interpretazione e del senso e tutto sembra farsi totalmente superficie (ma è anche questo, a ben guardare, un esito liberatorio verso cui tende la scrittura kafkiana anche nel sue pieghe più riposte), come le testimonianze riprese dai diari o dalla corrispondenza che riguardano la sua avversione per i medici, le sue simpatie e antipatie letterarie e umane: ad esempio la scarsa stima, al confine con il disprezzo, nei confronti di Else Lasker-Schüler, l’ironia verso Bernhard Kellermann in seguito a una sua lettura pubblica di cui era stato spettatore, oppure, in prospettiva rovesciata, l’avversione inspiegabile per Kafka, reputato da tutti uomo mite, inoffensivo e sensibile, provata da Ernst Weiss, che nel 1934 lo definì «una canaglia». Emergono persino particolari minuti come il colore dei suoi occhi, «scuri» secondo quattro testimoni, «grigi» secondo altri quattro (tra questi il suo più noto biografo, Gustav Janouch, e il suo amico e sodale Max Brod), «azzurri» secondo altri tre e infine «castani» secondo tre altri ancora (tra questi Dora Diamant, l’ultima compagna della sua vita).
In definitiva un libro prezioso, da consultare come un I-Ching kafkiano, da percorrere in modo piuttosto randomico (o rabdomantico) che sistematico, alla ricerca di un Kafka che già si conosce, che non si conosce, che s’intravvede e che non si sospetta. Qualunque sia stato il colore dei suoi occhi (che, comunque, il passaporto kafkianamente definiva «grigio-azzurro scuri»).