Renzo Paris / Lampi su PPP e Moravia

Renzo Paris, Pasolini e Moravia. Due volti dello scandalo, Einaudi, pp. 221, euro 15,50 stampa, euro 8,99 epub

C’è stato un tempo in cui la poesia era il sale della terra, un tempo in cui la figura del poeta, dello scrittore, contava davvero. Un tempo gli scrittori e gli intellettuali avevano un pubblico affezionato di lettori che a ogni nuovo articolo su L’Espresso o sul Corriere della Sera, a ogni nuova presa di posizione, dibattevano animatamente su ciò che l’intellettuale aveva messo in evidenza, su ogni frase, su ogni parola. Negli anni Sessanta c’erano dibattiti infuocati tra gli intellettuali su questioni cruciali come il cambiamento della società, l’estensione dei diritti, il rapporto con i giovani, il disastro ecologico, la minaccia nucleare.

Oggi purtroppo tutto questo non esiste più. Non esistono più quegli intellettuali che, come Pier Paolo Pasolini o Alberto Moravia, si gettavano nella mischia e cominciavano a darsele di santa ragione, non c’è più quello spirito polemico che spingeva anche grandi amici come Pasolini e Moravia a scambiarsi stoccate terribili sui principali giornali del paese. Al massimo oggigiorno gli intellettuali si possono gettare nella mischia per raggiungere le tartine al salmone in qualche première o in qualche vernissage.

La poesia e la letteratura non parlano più a un pubblico vasto, non suscitano più alcuna discussione. Non esiste più la poesia di impegno civile, come quella di Pasolini. L’intellettuale non è più un personaggio la cui opinione viene ascoltata e ha la possibilità di incidere sulle decisioni della politica, il pubblico non ha più fiducia nelle sue opinioni, e addirittura considera gli intellettuali come una classe di parassiti che trascorrono il loro tempo a leggere libri, a scrivere e a rimirarsi l’ombelico, a disquisire di parole e vuoti concetti in alcuni talk show.

Renzo Paris, con la sua ultima fatica, pubblicata in occasione del centenario della nascita dello scrittore di Casarsa, da lui stesso definita come una “affabulazione critica”, ci riporta a quella stagione di cui anche lui è stato protagonista. Paris, che veniva da Celano, un piccolo paesino della Marsica, anzi dalle “baraccopoli di Celano”, era il classico “cane sciolto”, il tipico sottoproletario di cui Pasolini raccontava la vita in romanzi e film. Da vero seguace di Pasolini e Moravia, li seguiva letteralmente nella vita di tutti i giorni ed è adesso in grado di ricostruirne le vicende sotto molteplici punti di vista, compresi alcuni screzi su argomenti importanti oppure alcune ripicche su questioni di poco conto, ma che contribuiscono a renderli ancora più umani. Anche questa ammirazione e questo rispetto reverenziale nei confronti degli intellettuali non ha più senso. Oggigiorno nessuno si metterebbe al seguito di un Walter Siti, di un Antonio Scurati, di un Gianrico Carofiglio, di una Michela Murgia, di un Emanuele Trevi, per tramandarne ai posteri le opinioni e i pensieri. Dai, non scherziamo.

Immaginate quali posizioni controcorrente avrebbe assunto un grande intellettuale come Pasolini, un intellettuale che non aveva paura di esporsi e di mettersi in gioco, un poeta che, come disse il suo amico Moravia all’indomani della sua morte, “ne nascono tre o quattro ogni secolo”. Immaginate cosa avrebbe detto e scritto Pasolini sulle Stragi del 1991-1993 e sulla Trattativa Stato-Mafia, sull’Attacco alle Torri Gemelle oppure sul ritorno della guerra in Europa e sul conflitto che la insanguina da qualche mese.

Paris insiste molto su un punto: i due intellettuali, pur così diversi, anzi, proprio perché erano così diversi, erano molto amici. Si frequentavano e si vedevano quasi tutti i giorni, spesso andavano a cenare insieme al Biondo Tevere, eppure erano in disaccordo su tutto: per dirne una, sul ruolo dei giovani protagonisti della contestazione, che Pasolini detestava perché li riteneva figli di papà omologati, mentre Moravia invece li appoggiava perché pensava che fossero gli alfieri del cambiamento.

Paris ripercorre le varie tappe dell’amicizia tra Pasolini e Moravia, le prime impressioni (“è salito da me un ragazzo con il naso rincagnato, che mi lasciò un dattiloscritto intitolato Ferrobedò”), l’amicizia, i profondi dissidi, le gelosie e anche qualche retroscena sul Premio Strega. Eppure entrambi avevano smascherato il perbenismo e l’ipocrisia borghese, Moravia nei suoi romanzi, Pasolini nelle sue poesie e in alcuni suoi film, come La Ricotta, in cui fa dire al personaggio regista del film, impersonato da Orson Welles, “l’Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa… l’uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro razzista, colonialista, schiavista, qualunquista…”. Se pensiamo a personaggi come Eugenio Cefis, Presidente dell’ENI e poi di Montedison, campione della cosiddetta “razza padrona”, Pasolini aveva perfettamente ragione. Non a caso qualche anno dopo La Ricotta, Cefis diventerà uno dei protagonisti di Petrolio, il “romanzo delle stragi”, il romanzo definitivo di Pasolini sul Potere e sulle sue perversioni, romanzo profetico quanti altri mai, tanto da anticipare di diversi anni una grande strage in una grande stazione ferroviaria (Torino nel romanzo, Bologna nella realtà).

La morte di Pasolini il 2 Novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia è diventata a tutti gli effetti uno dei grandi misteri italiani. Il corpo del poeta assassinato è diventato il corpo martoriato della Repubblica, l’ennesima versione del Cristo Crocifisso che carica sulle sue spalle tutti i peccati del mondo, l’ennesima pietra dello scandalo della sua lunga carriera di scandali, a perenne monito di una borghesia feroce che “non ha mai esitato ad uccidere i propri figli” (Salò o le 120 giornate di Sodoma), figuriamoci i suoi nemici dichiarati come Pasolini. Paris espone la sua opinione nel libro, che propende verso l’ipotesi che Pasolini sia stato ucciso da Pino Pelosi (probabilmente in concorso con altri) a causa di una richiesta erotica di Pasolini che il ragazzo di vita avrebbe rifiutato. Così la pensava anche Moravia, di cui Paris riporta una battuta proprio mentre i due si stavano recando sul luogo del delitto: “Ma non poteva fare come Visconti, che i ragazzi se li portava a casa?”. Eppure non mancano nel libro degli accenni alle altre piste alternative, dalla pista di Ordine Nuovo (di cui era convinta sostenitrice la “moglie non carnale” di Pasolini, Laura Betti), all’ipotesi dell’imboscata (sostenuta dal regista Sergio Citti), la pista dell’Eni di Cefis e di Petrolio, quella della Banda della Magliana e addirittura della massoneria (ma Pino la Rana confessò anni più tardi di non sapere neanche che cosa fosse, la massoneria), quella del furto delle pizze del film Salò, la storia di Johnny lo Zingaro, dei fratelli Borsellino, ecc. Tutte ipotesi che non hanno trovato sufficienti riscontri nel corso di questi anni, per cui la vicenda della morte di Pasolini si avvia a essere l’ennesimo caso irrisolto di questa lunga scia di misteri che è la Storia d’Italia. La verità è che, come dice Paris, a uccidere Pasolini una prima volta è stato l’establishment politico-culturale, che non gli ha mai perdonato i suoi scandalosi comportamenti (“Pasolini era stato ucciso una prima volta dai critici letterari di destra e di sinistra che l’avevano sempre maltrattato ed esposto al pubblico ludibrio”), e che, come scrisse lo stesso Moravia, “i mandanti del delitto sono una legione, in pratica l’intera società italiana”, sempre più intollerante, sempre più violenta, sempre più fascista. Scrive Paris: “Pasolini ci aveva avvertiti da un pezzo: la violenza che saliva dalle periferie presto avrebbe raggiunto anche le case dei suoi amici intellettuali.”

Paris ricorda anche il celebre “Processo a Moravia”, pubblicato da L’Espresso nel febbraio del 1968. Fra i principali accusatori dell’intellettuale borghese Moravia c’erano quelli che all’epoca erano i due massimi leader del Movimento, Oreste Scalzone e Massimiliano Fuksas. Alla luce di quanto i due leader hanno realizzato nei decenni successivi, c’è da rimpiangere il processato, più che i suoi inquisitori. A distanza di tanti anni, si può tranquillamente affermare che la Storia ha dato ragione a Moravia, che predicava un impegno controvoglia, più scettico e distaccato, rispetto ai due ardenti sostenitori della rivoluzione proletaria.

Pasolini – ci ricorda Paris – fu il primo a ipotizzare di istituire un processo alla Democrazia Cristiana e al suo capo Giulio Andreotti, e giù a scendere a Fanfani, Donat-Cattin, e altri, un’idea che fu ripresa letteralmente dalle Brigate Rosse qualche anno dopo con esisti disastrosi. Il Processo del “Tribunale del Popolo” delle BR all’Onorevole Aldo Moro dimostrò quanto sia sbagliato prendere alla lettera le grandi intuizioni di alcuni grandi intellettuali.

Dopo la morte di Pasolini nel 1975 e quella di Moravia quindici anni dopo, Paris cominciò a riflettere sul lascito di questi due grandi intellettuali, a riconsiderare il dibattito tra i due e a propendere più per la ragione e il distacco di Moravia che per le viscere e l’immersione totale nella realtà di Pasolini. Cominciò a dire che forse la metafora del Palazzo di Pasolini aveva perduto mordente con gli anni, che le sue griglie interpretative, la sua perenne nostalgia di una cultura contadina semplice e genuina, da contrapporre a una odierna realtà industriale corrotta e corruttrice, forse si erano un po’ arrugginite. L’aver espresso queste sue opinioni, in un celebre articolo de L’Espresso intitolato “Viva Moravia, abbasso Pasolini” (in realtà il titolo da lui proposto era: “Pasolini santificato, e Moravia dimenticato”), gli costò, come lui stesso rivela, l’amicizia con Laura Betti. Un altro suo scritto su Moravia gli procurò la reprimenda di Dacia Maraini.

Ma tutto questo ormai, tutta questa passione civile e politica, non esiste più. Il dibattito pubblico si è estremamente impoverito, ci mancano quegli intellettuali come Pasolini, pieni di curiosità nei confronti della vita, dei vari aspetti della società, che affrontavano la realtà di petto e si gettavano senza alcuna paura nella vita del sottoproletariato romano, mettendoci la faccia e l’intero corpo, fino al punto di essere ucciso da uno (o da alcuni) dei ragazzi di vita che lui stesso aveva fatto emergere dall’anonimato delle borgate mettendoli al centro della sua riflessione di intellettuale, scandaloso e scomodo. Moravia cercava di affrontare la realtà senza farsi travolgere, cercava di mantenere un certo distacco, Pasolini invece ci si immergeva completamente, fino a morirne. Entrambi scandalosi, entrambi fondamentali nel Novecento italiano. Due giganti.