C’è stato un lungo periodo in Italia, dopo il secondo dopoguerra, durante il quale i fascisti scampati alle rappresaglie dei partigiani, oppure i neofascisti che militavano nell’MSI, hanno continuato a operare in funzione del mantenimento dell’ordine pubblico, a sostegno dell’azione repressiva dei Carabinieri e del famigerato reparto di Polizia mobile della Celere, diventato tristemente famoso per la feroce repressione delle proteste operaie e contadine sotto il ministro Scelba. Nell’Italia del dopoguerra, ma anche prima, i moti operai e contadini sono sempre stati repressi con il sangue, con delle vere e proprie stragi. È accaduto a Portella della Ginestra, a opera della Banda di Salvatore Giuliano, è accaduto ad Avola, a Gravina di Puglia, a Melissa (3 morti), a Modena, a Reggio Emilia. E continua ad accadere, solo che adesso i braccianti sono di origine africana e quindi non fanno notizia.
Renzo Paris, uno scrittore che da sempre – sulla scia del suo amico e maestro, Pier Paolo Pasolini – è impegnato a scrivere degli ultimi e dei diseredati, a immergersi nel vortice della Storia in cui, come sempre, gli ultimi vengono travolti, torma ancora una volta a raccontare le vicende della sua terra di origine, la Marsica. I protagonisti di questo libriccino sono proprio gli ultimi, relegati nella “discarica della Storia”, i rifiuti della società, gli straccioni, i poverissimi braccianti della Marsica, coinvolti in vicende in cui – tanto per cambiare – “gli stracci vanno all’aria”, come scriveva Manzoni nei Promessi Sposi. Ed è proprio rievocando le vicende degli ultimi, dei disgraziati abitanti di Celano dei Marsi, il paese di origine della famiglia Paris, che nasce questa nuova opera dello scrittore abruzzese: romanzo di autofiction o memoir in cui le vicende personali dell’autore si intrecciano in modo inestricabile agli avvenimenti storici.
Eventi storici che vedono come protagonisti i cosiddetti “ciarlottoni”, o “ciarluttoni”, o “ciarluttò”, versione aggiornata dei “cafoni” descritti da Ignazio Silone in Fontamara, cioè quei poveri braccianti agricoli impegnati a dissodare la conca del Fucino, feudo della ricchissima famiglia Torlonia, grandi proprietari terrieri, banchieri e imprenditori, oltre che grandi collezionisti di opere d’arte. I “ciarlottoni” descritti da Paris sono così poveri da andare in giro letteralmente vestiti di stracci, con le proverbiali pezze al sedere, proprio come il personaggio di Charlot – da cui deriva questa colorita espressione abruzzese – amatissimo tra i ceti popolari in Abruzzo, i cui film venivano spesso proiettati nelle piazze principali dei paesi su degli schermi improvvisati con delle lenzuola.
Dunque l’evento storico che è al centro di questo memoir (poco più di 150 pagine, ma esplosive) è il cosiddetto eccidio di Celano (30 Aprile 1950), nel cuore della Marsica, cioè l’uccisione di due braccianti agricoli da parte di alcuni militanti dell’MSI al servizio della famiglia Torlonia, da sempre in buoni rapporti con Mussolini e con il Fascismo, nonostante l’origine ebraica. Fin da bambino Paris ha imparato a convivere con la miseria nera che caratterizzava gli abitanti del rione-baraccopoli di Campitelli a Celano, a condividere le sofferenze di una popolazione costretta a vivere in condizioni bestiali, in veri e propri tuguri, con le galline, le pecore e i maiali che scorrazzavano nelle vicinanze, dove mancavano i servizi igienici e l’acqua corrente, dove d’inverno si moriva di freddo e d’estate di caldo, dove la fame era una presenza costante e si arrivava a mangiare di tutto, perfino l’erba o i serpenti.
Il picchio rosso, che il piccolo Paris aveva addomesticato e portava sempre con sé in una gabbietta, diventa il simbolo di questo intreccio tra le vicende della famiglia Paris e la storia delle lotte contadine nella Marsica. Infatti tra le vittime di quell’eccidio ci fu anche il picchio di Paris – all’epoca un bambino di soli sei anni – che fu colpito a morte da uno dei proiettili sparato dai fascisti.
L’odio personale di Paris nei confronti dei Torlonia per l’uccisione della mascotte del rione Campitelli si fonde con l’odio dell’intera popolazione di Celano, in un moto di ribellione che appare, almeno all’inizio, apolitico o addirittura prepolitico (proprio come il moto di ribellione della comparsa Stracci nella Ricotta di Pasolini). Si tratta di una ribellione che sale dalle viscere affamate, una ribellione che è quasi antropologica, risale alle fiere origini del popolo dei Marsi, l’ultima popolazione ad arrendersi quando le truppe dei Romani soffocarono nel sangue la rivolta della Guerra Sociale nel I secolo a.C. Il picchio rosso è anche questo: un animale-totem, simbolo delle antiche popolazioni italiche che seguivano i riti della primavera sacra (ver sacrum).
Molto spesso la massa dei contadini di Celano viene descritta come una massa informe, lontana da una vera e propria “coscienza di classe”, una massa le cui manifestazioni di protesta somigliano più che altro a delle processioni medievali, come le donne dolenti vestite di nero, e la grande T nera del Tau che si confonde con la T della famiglia Torlonia, processioni intrise di un cristianesimo di maniera sotto la cui superficie si intravede un profondo sostrato di riti pagani che esercitano una attrazione ancora molto forte tra la popolazione abruzzese, un tema già trattato in modo efficace da Gabriele D’Annunzio in alcune delle sue Novelle della Pescara. La protesta dei braccianti di Celano viene dunque accostata a tutta una serie di superstizioni di origine antichissima, di veri e propri riti apotropaici, compresa l’evocazione degli antichi avi defunti che tornano ad affacciarsi dall’Ade, dal Mondo dei Morti, e chiedono con insistenza allo scrittore Paris di vendicare la loro morte, proprio come nella tragedia greca, oppure gli chiedono semplicemente di raccontare la loro storia, in una sorta di versione abruzzese dei Sei Personaggi in cerca di Autore di Pirandello.
All’inizio del libro l’autore immagina che i personaggi della strage di Celano tornino a trovarlo e gli chiedano di rievocare il loro eccidio, di trasformarsi per loro in una sorta di Sciamano della Marsica, in grado di rievocare gli spiriti dei defunti e di vendicarli salvando le loro storie dall’oblio. Da questo punto di vista Il Picchio Rosso prosegue quel filone di romanzi etnografici – o addirittura antropologici – di Paris, romanzi in cui le popolazioni abruzzesi della Marsica mostrano il loro lato più primitivo, brutale e a volte bestiale. Non mancano in questo memoir accenni al cannibalismo (altro che i cannibali-fighetti alla moda come Timothée Chalamet), alla zoofilia, a una serie di rapporti interpersonali basati sullo stupro, la violenza e la sopraffazione. A un certo punto assistiamo sgomenti alla scena di un arzillo vecchietto abruzzese che violenta la nipotina cantando una nenia per bambini: “Antrò tua lé, lemme lemme così è.” Ed è proprio il dialetto abruzzese, questa vera e propria lingua di cui Paris riscopre la grande forza espressiva, uno dei grandi protagonisti di questo memoir. Il dialetto, con la sua capacità di adattarsi alle mutate circostanze per sopravvivere, a rielaborare anche i più recenti neologismi per non soccombere alla crescente omologazione linguistica dell’italiano standard. Ne è un esempio il termine “ciarlottone” oppure il “pigalotto”, utilizzato per descrivere i giovani del paese, che deriva da Pigalle. Si tratta di una vera e propria lingua, una lingua viva, che si sa adattare per sopravvivere, proprio come i suoi parlanti, i cenciosi braccianti di Celano.
Potrà sembrare posticcia l’immagine dei braccianti di Celano come tanti Charlot proposta da Paris, eppure ci sono alcuni collegamenti importanti, come il fatto che il segretario personale di Chaplin fosse un abruzzese, come una delle più famose controfigure di Charlot, un marsicano di nome Vincenzo Pelliccione da Rosciolo dei Marsi. Pelliccione sin da bambino si esercitava a imitare il suo idolo, e a vent’anni riuscì a coronare il sogno di recarsi a Hollywood per conoscere il suo “originale”, diventandone la controfigura. Pelliccione – alias Eugene De Verdi – era così somigliante a Chaplin da creare una ressa indescrivibile a Los Angeles quando fu avvistato vestito da Charlot nella zona dei teatri, creando l’assembramento di una massa anonima e anche pericolosa, tanto che lo stesso Pelliccione dovette rifugiarsi in un teatro per non esserne travolto. Si tratta di una scena molto simile a quella descritta dallo scrittore Nathanael West nel finale del Giorno della Locusta (1939), in cui una folla anonima si riunisce minacciosa attorno a un cinema di Los Angeles per ammirare i suoi attori preferiti in occasione di una prèmiere.
Questa massa anonima degli straccioni di Celano riesce a indirizzare la sua rabbia, le sue istanze di ribellione, verso obiettivi concreti, ad acquisire una vera e propria “coscienza di classe” – la trasformazione dei “ciarlottoni” in individui consapevoli dei loro diritti – soltanto grazie all’opera instancabile di alcuni dirigenti del Partito Comunista dell’epoca (siamo all’inizio degli anni Cinquanta), sindacalisti e quadri di partito del vecchio PCI scampati miracolosamente alle pistolettate dei fascisti, che all’epoca svolsero un ruolo di cui gli stessi sicari dei Torlonia erano consapevoli, dato che il vero obiettivo dell’eccidio erano proprio loro… Già, ma allora i dirigenti della Sinistra si riunivano nelle stalle con i braccianti e rischiavano la vita, mentre i dirigenti attuali dei cosiddetti “dem” ti guardano dall’alto in basso se non sei vestito all’ultima moda, e si riuniscono nei bar del Centro per l’apericena.
A questo punto immaginiamo lo studente di scuola superiore che ha appena finito di leggere Il Picchio Rosso – che la sua insegnante di Italiano e Storia (di sinistra) gli ha consigliato di leggere – che alza gli occhi dal libriccino e fa: “Mi scusi Prof, ma qui ci deve essere un errore. Si parla di un’uccisione da parte dei fascisti nel 1950. Ma il Fascismo non era morto nel 1945 con la morte di Mussolini? L’hanno detto l’altra sera alla TV, lo scrivono tutti i giorni sui social”. Il trionfo dell’omologazione.