Metti un giovane aspirante critico teatrale, un tetragono caporedattore del maggiore quotidiano nazionale che lo costringe, forse con una punta di sadismo, a visionare il peggio delle uscite cinematografiche del momento; metti l’esplosivo e mutevole contesto degli anni ’70, un universo cinematografico in continua fioritura ma già indelebilmente avvelenato dal decadimento morale e dal cattivo gusto: metti tutto questo ed ecco Esotici, erotici, psicotici. Il peggio degli anni Settanta in 120 film, un volume che raccoglie le recensioni del docente, critico teatrale e giornalista Renato Palazzi, uscite tra il 1974 e il 1978 sul Corriere della Sera, edito da Cuepress, piccola ma agguerrita casa editrice che sforna volumi pregevoli sul cinema e sul teatro.
Il libro è corredato di una prefazione di Maurizio Porro, un “avviso al lettore” dell’autore, una postfazione di Cristina Battocletti e un suggestivo apparato iconografico con riproduzioni di locandine a colori, il titolo echeggia un film del 1972, Esotika Erotika Psikotica, scelto a simbolo di un’intera categoria, pellicola bollata come “assolutamente senza capo né coda” (per curiosità, Andy Warhol invece la definì “un capolavoro oltraggiosamente stravagante”). Le recensioni, accompagnate da sintetiche schede dei film, sono raggruppate in capitoli secondo generi, sottogeneri, rivoli e scorie di generi: voyeurismo casareccio, declinazioni di erotismo nelle cinematografie estere, porno-inchieste, sexy carceri e lager, poliziotteschi, spaghetti horror, rimasugli del western, alieni e mostri vari, Bruce Lee e dintorni, pugni e fagioli, coppole e lupare, nazional-popolari, lacrima movies, e una sezione, “Effetti collaterali”, dove appaiono recensioni interessanti dal punto di vista sociologico, che rendono testimonianza dell’inarrestabile avanzata dei cinema a luci rosse, nonché una lettera di protesta di un lettore.
Un esperto di cinematografia trash del periodo troverà senz’altro dei buchi nel campionario di pellicole presentate, ma l’autore avverte che i film sono quelli da lui recensiti, non si tratta dunque di una classifica del peggio in assoluto (che sarebbe peraltro altamente soggettiva). Sono per lo più prodotti confezionati con lo stampino, che salvo rarissime eccezioni si attengono ai più vieti cliché, a formule consolidate dal successo commerciale. Nelle sue vivaci e pittoresche analisi Palazzi sembra voler compensare la mancanza di possibilità critica dell’“opera” visionata (regie maldestre, trame inesistenti, sceneggiature abborracciate, bozzetti mal assemblati) con notazioni sociologiche e di costume che oggi risultano di grande interesse. Ecco allora le descrizioni, tra la repulsione e il divertito, dell’affezionatissima clientela maschile di quei film che si soffermava nelle toilette ben oltre i tempi di una necessità fisiologica, l’inquietante tremito d’una fila di poltroncine dove i più sfacciati sedevano, il mistero d’una platea traboccante di pubblico per ammirare un’attrice “dal fascino insignificante” (Franca Gonella, nel film La bolognese).
Il critico stronca senza pietà film non di rado ignobili (tanto per chiarire la qualità di ciò che era costretto a visionare, l’autore spiega con lampante sarcasmo che pellicole come Giovannona coscialunga o Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda appartenevano a una categoria premium a cui per diktat redazionali non aveva accesso), esercitando in tal modo il ruolo civile di critico militante che, da “ex sessantottino con la tipica presunzione di essere sempre dalla parte del giusto”, avvertiva come suo, e difendendosi dalle immagini che lo tormentano fino al disgusto con l’affilatissima arma dell’ironia, che rende imperdibili queste recensioni.
Per Palazzi “le vie del cattivo gusto sono davvero infinite” (incipit della recensione de Il compromesso erotico), e “niente è più volgare della stupidità” (a proposito della “farsa pecoreccia” La commessa). I suoi strali passano dal “grossolano e caotico miscuglio di thrilling ed erotismo” di La mogliettina, ai “vieti luoghi comuni e caratteri sbozzati con l’accetta” di Lezioni private, “all’assoluta assenza di trama e di sviluppo logico” del “razzista” Emanuelle nera, a “uno dei prodotti più bolsi e deprimenti degli ultimi anni” (Amore mio spogliati… che poi ti spiego). Lungi dal divertirsi, il critico annota “l’infinita noia delle freddure e la triviale esibizione di luoghi comuni esibiti” in La figliastra, il “sentimentalismo d’accatto”, gli “accigliati moralismi”, gli “psicologismi da salotto” di Seduzione coniugale, fotografa un’epoca con un incipit fulminante (“Con La bellissima estate il cinema italiano della commozione e dello strazio dà la stura alla sua vena più funerea e cimiteriale”), lamenta il mai esaurito “infausto filone erotico-monastico” (La novizia indemoniata), “i brividucci superficiali e i trucchetti da strapaese” di Chi sei?, esecra “l’indegna serie erotico-nazista” che con Fräulein Kitty “prosegue senza il minimo scrupolo di civile pudore”, si disgusta per le solite pseudo-inchieste tedesche piene di “sedicenti psicologi che rilasciano deliranti dichiarazioni sulla crisi della coppia come pretesto per sciorinare pesanti barzellette da birreria” (Ninfomania casalinga).
Oggi possono anche sorprendere certe piccate indignazioni, una vena che un lettore dell’epoca con una lettera di protesta definì moralistica e bacchettona, ma è impossibile non solidarizzare con chi scrive una tale frase accorata: “Credetemi, bisogna proprio voler annientare una persona per mandarla a vedere un film con Sabina Ciuffini” (la celeberrima valletta della trasmissione Rischiatutto di Mike Buongiorno, “ex idolo acqua e sapone delle platee televisive” definita “graziosa e patetica” ragazza). Comunque, si apprezza non poco la lingua affilata e pittoresca di Palazzi, l’ammirevole serie di varianti con cui declinava un trito campionario di titoli serialmente simili. E così tra viziosette, minorenni e verginelle precocemente dedite ai piaceri della carne, dottoresse e soldatesse non poco disinibite, mogliettine, cognatine, cuginette e nipotine paraninfomani, la penna del critico si sbizzarrisce in analogie volutamente improbabili (per il film Inhibition evoca Alan Ladd nel finale del Cavaliere nella valle solitaria), cogliendo l’occasione per demolire il cinema trash in ogni sua declinazione, reo di riprodurre una “mezza misura ammiccante e sudaticcia, da buco della serratura, un po’ peccaminosa e un po’ parrocchiale, che non ha nulla a che fare con l’autentica pornografia, per la quale è comunque necessario un certo ingegno”, nonché per riflettere sul rapporto tra intrattenimento e cultura di massa.
A uno sguardo attento una cosa però balza evidente: in non poche di queste (e altre coeve) pellicole appaiono fior di attori, la crema degli autori di colonne sonore, tecnici e artisti di primissimo piano, ricordati per ben altri film. Nelle recensioni, dettate com’erano da altre urgenze, di ciò non v’è quasi traccia, ma con lo sguardo retrospettivo questa filmografia assume altri significati, si presta ad analisi sociologiche e di costume, allo studio delle realtà economiche, produttive e creative del sistema cinema italiano che nel ventennio 1960-1970 visse una stagione floridissima, caratterizzata dalla prodigiosa capacità di penetrazione di una cultura (certo, anche di una sottocultura) nei mercati e nell’immaginario d’oltreconfine. In tale ottica, la godibilissima lettura di questo libro non sarà forse fine a se stessa, ma potrà offrire ulteriori spunti critici agli studiosi del come eravamo – e magari del come ancora siamo.