“Scrittore minore satirico dell’Italia del Benessere”, in tali termini modesti Ennio Flaiano (1910-1972) si immaginava di venire citato in un’ipotetica enciclopedia letteraria del 2050, aggiungendo in più solo i titoli di giornalista, sceneggiatore e autore di un solo romanzo – che per giunta riportava ironicamente con il titolo sbagliato. A ventisette anni da questa immaginaria scadenza futura possiamo dire, per fortuna, che la sua memoria sia per ora assai meglio conservata. Se il suo nome viene talvolta citato a sproposito, è comunque citato molto spesso, non solo per le sue benemerenze cinematografiche più note e mai come “scrittore minore”: lo provano le lussuose Opere complete curate da Maria Corti e Anna Longoni per Bompiani alla fine degli anni ’80, e oggi l’attenzione di Adelphi che lo ha, ripubblicandolo integralmente, consacrato nel gotha dei grandi della letteratura italiana. Alla ragguardevole bibliografia su di lui accumulata in questi anni, si è recentemente aggiunto Ennio l’alieno, di Minore e Pansa, testo interessante proprio perché sfuggente, non essendo possibile etichettarlo né come saggio critico, né come biografia: un po’ entrambe le cose e nessuna delle due, un’attestazione di stima e di affetto più che altro.
Si comincia evocando la nativa Pescara, le memorie legate al mito di D’Annunzio, la cui casa distava pochi metri dal lussuoso negozio di generi alimentari del padre Cetteo Flaiano, e ai cui balconi, Ennio bambino, vedeva affacciata l’anziana madre del Vate; le reminiscenze familiari, l’infelicità coniugale della madre, la freddezza del padre, compagno di scuola dell’Immaginifico, imprenditore di successo, autoritario, fedifrago e assente; il Collegio Nazionale di Fermo dove frequenta le elementari in tristezza e malinconia per la famiglia lontana e le estate abruzzesi con i provvisori ricongiungimenti: “un’infanzia piena di esili […] alla David Copperfield” come la definì più tardi. Poi la sua personale Marcia su Roma, che raggiunge per iscriversi al Collegio superiore del Clementino (dove trascorrerà “i quattro anni più inutili della sua vita”) mentre i manipoli delle Camicie nere sfilano dietro ai Quadrumviri.
Del fascismo ha da subito una visione lucida e critica che gli detterà, molti anni più tardi, un celebre passo: “Il fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il fascismo è demagogico ma padronale. Retorico, xenofobo, odiatore di cultura, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli “altri” le cause della sua impotenza o sconfitta. Il fascismo è lirico, gerontofobo, teppista se occorre, stupido sempre, alacre, plagiatore, manierista. Non ama la Natura, perché identifica la natura nella vita di campagna, cioè nella vita dei servi: ma è cafone, cioè ha le spocchie del servo arricchito. Odia gli animali, non ha senso dell’arte, non ama la solitudine, né rispetta il vicino, il quale d’altronde non rispetta lui. Non ama l’amore, ma il possesso. Non ha senso religioso, ma vede nella religione il baluardo per impedire agli altri l’ascesa al potere. Intimamente crede in Dio, ma come ente col quale ha stabilito un concordato, do ut des. È superstizioso, vuol essere libero di fare quel che gli pare, specialmente se a danno o a fastidio degli altri. Il fascista è disposto a tutto purché gli si conceda che lui è il padrone, il padre. Le madri sono generalmente fasciste”.
E il fascismo lo manda, ventiquattrenne, in Etiopia, sottotenente del genio militare: il diario di quell’esperienza traumatica, Aethiopia. Appunti per una canzonetta, costituirà la base e lo scenario reale per l’affabulazione fantastica del suo primo e unico romanzo, Tempo di uccidere, vincitore nel 1947 di un ancora ruspante Premio Strega. L’unico romanzo italiano, almeno fino a tempi molto recenti, ad affrontare la responsabilità del nostro disdicevole passato coloniale. Il protagonista narratore in prima persona – e quindi assai poco obiettivo nel riferire i fatti che lo riguardano – probabile violentatore (ma la ragazza è consenziente, dice) e assassino (ma il colpo è partito per sbaglio, dice) di una bella indigena, tenta di eludere le proprie responsabilità criminali e teme di aver contratto la lebbra dal rapporto intimo con la vittima, forse infettata. Nel finale, rassicurato – nessuno si è accorto di nulla, quindi “tecnicamente” è innocente, in più non ha la lebbra – potrà tornare a casa dalla moglie che lo aspetta, con la coscienza tranquilla eppure “un fiato velenoso. Affrettai il passo, ma la scia di quel fetore mi precedeva”. La metafora è evidente. Un libro scritto in tre mesi, su commissione di Leo Longanesi, sul rovescio dei fogli di una sceneggiatura per un film mai realizzato tratto da Fontamara di Silone.
Fino a quel momento Flaiano, bocciato all’esame di ragioneria, passato al liceo artistico, iscritto alla facoltà di Architettura che non ha quasi mai frequentato, ha collaborato come critico letterario e cinematografico a innumerevoli riviste e periodici dell’epoca – Oggi, Occidente, L’Italia letteraria, Quadrivio, Cinema, e molti altri – e iniziato l’attività di sceneggiatore per Rossellini e Totò. Nel Dopoguerra, fra il 1949 e il 1953, sarà caporedattore de Il Mondo di Mario Pannunzio, il giornale del terzaforzismo – forza democratica non socialista che unisce repubblicani e liberali di sinistra – accanto a lui personaggi come Vitaliano Brancati, Sandro De Feo o Mino Maccari, Corrado Alvaro o Giorgio Vigolo. Ma il giornalismo, pur di altissimo livello, lo stanca presto.
Più duraturo il suo sodalizio col cinema. Scrive per Antonioni, Lattuada, Blasetti, Monicelli, Soldati, e ovviamente Fellini, dichiarando certa diffidenza verso “gli specchi del neorealismo” e venerazione per Charlie Chaplin. Con Fellini, conosciuto già nel 1938 alla redazione del giornale satirico Marc’Aurelio dove il futuro regista disegna caricature e vignette, inizia dal 1950 – con Luci del varietà, prima regia di Fellini a metà con Lattuada – una collaborazione stretta e un’amicizia intima. Si protrarrà per tutto il periodo iniziale e probabilmente migliore della carriera felliniana producendo capolavori come I vitelloni, Le notti di Cabiria, La dolce vita, 8 e mezzo, fino a Giulietta degli spiriti, ultimo frutto di un rapporto intenso e non facile interrotto turbinosamente. Flaiano rimprovera da sempre a Fellini di non riconoscere pubblicamente l’apporto creativo determinante del suo sceneggiatore: “mi ha rubato anche l’infanzia”, scriverà. Di quanto per esempio i vitelloni riminesi felliniani siano in realtà figure delle sue memorie giovanili pescaresi o di come la “dolce vita” di via Veneto, con tutto il disgusto e la spossatezza, appartenga assai più allo scrittore che al cineasta. Quando il volo in America per la candidatura all’Oscar nel 1964 relega Flaiano in classe turistica, le contraddizioni di anni esplodono e la rottura è inevitabile: “Ciao, caro Fellini, le amicizie frivole finiscono per una frivolezza”.
Flaiano tenterà allora di coronare la sua attività cinematografica con un film come regista e fallirà. Sarà la sua delusione più grande. Il progetto di Melampo, storia di un intellettuale italiano a New York, storia d’amore (ispirata a quella che lo scrittore sta vivendo con Camilla Martellini, giornalista corrispondente per Vogue dalla città statunitense), l’amore inteso come dedizione assoluta che si metaforizza in metamorfosi canina. Ennio vorrebbe come protagonisti Dirk Bogarde, Claudia Cardinale, Catherine Deneuve. Il progetto passa sotto gli occhi di diversi produttori, da Ponti a Cristaldi, ma tutti vogliono apportare modifiche, imporre un lieto fine, mutare registro e Flaiano che intende mantenere il controllo totale sul film nel 1969 rinuncia definitivamente. Il soggetto, che ormai non conserva più nulla della trama originale, sarà acquisito da Marco Ferreri che lo trasformerà in La cagna, con Deneuve e Mastroianni. Flaiano, dal canto suo, riscriverà la sceneggiatura in forma di novelette, Melampus, che, raccolta insieme alla speculare Oh Bombay!,va a comporre il distico de Il gioco e il massacro (1971), l’ultima sua uscita narrativa in vita.
Ma esiste un ultimo capolavoro anche in campo audiovisivo: il documentario televisivo di 220 minuti Oceano Canada, girato in 16 mm. con il regista Andrea Andermann nel 1971 e trasmesso dalla Rai in sei puntate nel 1973, a quasi un anno dalla morte dell’autore. Il film è attualmente visibile sul sito di Rai Play e consiglio vivamente tutti di guardarlo perché è bellissimo. Flaiano che aveva già avuto un primo infarto si espose, per portarlo a termine, a un lungo e faticoso viaggio in un paese enorme e freddo, che aveva già visitato e che amava, un paese in tutto e per tutto antitetico a quella Roma che non sopportava più e da cui voleva fuggire. Attraversa Toronto, Montreal e le grandi pianure, visita un museo della scienza e una miniera abbandonata, incontra capi indiani, cowboys mormoni e comunità di emigrati italiani, ha una commovente amicizia con una bambina esquimese orfana che lo conduce per mano nel cimitero del villaggio Inuit a visitare le tombe dei parenti morti – un fratellino soffocato per avere ingoiato un fiore di plastica, la nonna perduta da tre mesi: “il missionario dice che è andata in cielo, io dico che sta qui”. Le note melanconiche della splendida colonna sonora di Leonard Cohen, che all’epoca in Italia non conosceva ancora quasi nessuno, con una delle sue canzoni più belle, Avalanche, sigla di apertura e di chiusura di ogni puntata, rendono ancor più nubilosa l’atmosfera.
Gli autori avrebbero voluto intervistare Marshall McLuhan, ma il sociologo chiede una cifra esorbitante e concede solo cinque minuti del suo tempo per le riprese. L’ultima fulminante scena del film mostra Flaiano strappare le pagine del taccuino con le domande dell’intervista fallita e farne una barchetta che affida ad acque impetuose: l’inquadratura allarga il campo seguendo il percorso della barchetta e vediamo ora il paesaggio immenso delle cascate del Niagara: “il solo medium del Canada che contiene il proprio messaggio”. Riguardando quelle riprese al montaggio, durante la registrazione dei suoi interventi di voce fuori campo, dirà: “Vorrei che fossi ricordato per questa barchetta di carta”.
I capitoli finali del libro di Minore e Pansa sono dedicati all’evento più doloroso e privato della vita di Flaiano, il rapporto con la figlia Luisa, Lè-Lè come è chiamata affettuosamente, colpita da una grave encefalopatia e con la moglie Rosetta Rota, una donna straordinaria, scomparsa nel 2003, che ha saputo rinunciare a una brillante carriera nella ricerca scientifica accanto ai “ragazzi di via Panisperna”, per dedicarsi interamente alla figlia disabile e dopo la scomparsa di lei nel 1992, alla Fondazione in suo nome per l’assistenza delle persone colpite dalla sua stessa nefasta patologia. Fra le altre cose la Fondazione, sotto la cura di Rosetta, ha realizzato un libro, Mi riguarda, sulla disabilità vista attraverso l’esperienza diretta di nove scrittori coinvolti, fra cui lo stesso Ennio, Giuseppe Pontiggia, Giancarlo De Cataldo, Isabella Rossi Fedrigotti, Clara Sereni e altri. Flaiano è sempre stato molto riservato in proposito, parlando raramente della figlia malata e tenendola il più possibile al riparo dal mondo, ritirata con la madre, nella casa estiva di Fregene. Triste l’episodio, riportato nelle ultime pagine del volume, di una visita di Fellini, che non riesce guardare Lè-Lè in faccia, si gira dall’altra parte e si lascia sfuggire una frase crudele: “Perché non la rinchiudono?”: basta un aneddoto del genere a spiegare la ritrosia dei Flaiano sui particolari delle loro vicende familiari.