Al suo dodicesimo romanzo, Remo Bassini costruisce una storia compatta e dal ritmo irresistibile, che riproduce le atmosfere di Lo scommettitore, l’opera pubblicata nel 2006 per Fernandel e che giunse tra i finalisti del Libro dell’Anno del programma radiofonico Fahrenheit.
Due sono i fattori che congiurano a mantenere Remo Bassini fuori dalla rosa dei nomi più conosciuti nel mondo del giallo e del noir: innanzitutto il fatto che, a differenza di quasi tutti gli autori che hanno sfondato nel genere, egli non ha un protagonista seriale che ritorna da un romanzo all’altro – e si sa l’importanza di fidelizzare il lettore fornendogli la sicurezza di un personaggio già conosciuto; in secondo luogo, il non trascurabile dettaglio che le storie di Bassini sono ambientate nella provincia profonda, un non-luogo che per i lettori delle grandi città è più alieno delle strade di New York, Parigi o Stoccolma.
Forse non morirò di giovedì non è un romanzo d’indagine; però ne ha la forma e il ritmo. La storia, parzialmente autobiografica, è ambientata nel breve arco di pochi giorni in una città di provincia della Pianura Padana, che non viene mai nominata ma che potrebbe essere Vercelli: è qui che Bassini, nato a Cortona, vive da quasi sempre, ed è qui che per anni ha svolto l’incarico di direttore di un giornale locale, esattamente come Antonio Sovesci, il protagonista del romanzo.
La trama. Una notizia da prima pagina giunge alla redazione di un quotidiano che si rivolge alla comunità di lettori di una città di provincia, e dintorni: in un parco dove la sera si danno appuntamento anche coppiette omosessuali, due uomini sono stati aggrediti e picchiati a sangue; occorre inserire la notizia in fretta, prima di andare in stampa, ma mentre Sovesci è impegnato altrove, per concedere una lunga intervista a un’ex collega passata alla televisione, la redazione decide di non pubblicare parola, su preghiera dell’uomo coinvolto nel fatto.
All’apparenza sembrerebbe una scelta di rispetto verso un cittadino, in modo da non creargli imbarazzo; ma a mano a mano che Sovesci si muove per capire cos’è successo, ogni risposta parziale sembra aprire una porta su qualcosa di più grande e oscuro, finché la vicenda del parco si riduce alla punta di un iceberg che rischia di affondare il direttore.
Il racconto dei giorni affannati in cui si dipana la trama è scandito da passaggi dell’intervista TV, domande e risposte che immancabilmente rivelano qualcosa sulle scelte del protagonista. Bassini costruisce un labirinto di indizi, come tessere di un domino che rovinano una addosso all’altra a mano a mano che Sovesci scopre un nuovo frammento di verità; l’impressione è che il protagonista giochi in solitario una partita a carte, voltandole una ad una fino ad arrivare alla soluzione complessiva, nelle ultime pagine – e nel corso della partita tenta di mettere in atto contromisure per non essere travolto da una vasta congiura, una trappola costruita con perizia contro il suo ruolo professionale.
Qual è la posta in palio in questo gioco al massacro? È soltanto il suo ruolo nella redazione oppure è qualcosa di superiore, una questione deontologica, o meglio ancora di coscienza? Il significato del mestiere di giornalista, perché un’informazione libera rende libera la società, ma questa verità si scontra con le esigenze di chi mette i capitali e pretende un ritorno economico, anche da un quotidiano che si rivolge a una comunità limitata come un capoluogo di provincia. La filosofia di Sovesci è quella di aver fiducia nella verità e nella capacità del pubblico di riconoscerla, anche in una situazione di grave crisi nelle vendite. L’informazione sceglie altre vie, altri media che asciugano la comunicazione fino a un messaggio superficiale e frettoloso; ma Sovesci è di differente avviso, e non perché appartenga a una generazione precedente, bensì per una presa di posizione ideologica: “Se un giornalista è libero per davvero, se cerca di non farsi condizionare dal potere, dalle sue simpatie politiche, dalle sue amicizie, da tutto insomma, editori compresi, riuscirà a svolgere questa professione in modo credibile. Senza libertà e senza giornalisti liberi il giornalismo è già morto.”
Forse non morirò di giovedì è una macchina bel oliata, che all’inizio non lascia presagire l’ampiezza e la profondità del racconto; il ritmo lascia poche pause, nelle quali Bassini riesce anche a inserire ampie incursioni narrative nella vita del suo protagonista, nel passato, e i suoi rapporti con le donne che lo circondano: un delicato equilibrio tra sociale e personale che si legge tutto d’un fiato.