Per chi vive in provincia, come il sottoscritto, è sempre una sensazione straniante la lettura un libro ambientato nella sua città. Riconosce i luoghi, la mentalità, quasi riconosce le persone; perché mentre le metropoli nella letteratura sono sempre spersonalizzate, mascherate dietro una facciata di luoghi comuni, stereotipi, modi di raccontare – al contrario, i capoluoghi di provincia sono terra incognita, trappole di facile localismo nelle quali l’autore rischia di sprofondare. È per questa ragione che mi trovo a applaudire Remo Bassini, giallista che fa della provincia il territorio privilegiato della sua indagine letteraria: perché in questo suo ultimo romanzo (Golem Edizioni è torinese) riconosco non tanto la città in cui vivo, Vercelli, quanto una certa mentalità diffusa, un (o una) abitante-tipo, con i suoi numerosi difetti e i suoi pochi pregi. Se il buono di questo libro fosse solo qui, non varrebbe la pena recensirlo. In realtà Bassini riesce a mettere in rete almeno altri due goal: innanzitutto, la descrizione claustrofobica di una comunità chiusa, nel corso della prima ondata del Covid-19, nella primavera del 2020; sono passati appena due anni, ma molti di noi non ricordano nel dettaglio quei giorni che la lettura richiama alla memoria con vividi dettagli: erano i giorni del terribile “lockdown totale”. Inoltre, un intrico letterario in cui complessità e perfetto meccanismo si dipanano soltanto nella rivelazione finale, e che dimostra come eventi che appaiono inspiegabili, persino un po’ forzati, siano invece una logica conseguenza del plot.
Come nei precedenti romanzi di Bassini, il personaggio che indaga non è una figura istituzionale, né poliziotto né carabiniere. L’autore proviene dal giornalismo, e talvolta i suoi protagonisti si muovono in quell’ambiente. Questa volta, Romolo Strozzi, pugliese trapiantato a Milano e poi nelle montagne del Piemonte, è addirittura un giornalista sui generis, nel senso che possiede il cartellino dell’albo, ma solo perché per arrotondare le entrate scrive per un giornale a diffusione nazionale ma a bassa tiratura, che nessuno conosce; ha quindi la tessera da pubblicista. La molla che fa scattare l’indagine è la sua infatuazione per una donna conosciuta per caso, e frequentata pochissimo: Nora, con la quale passeggia una notte per le strade di Orta San Giulio. Basta questa breve intimità per far scoccare una scintilla. Innamoramento? Infatuazione? Ossessione? Il destino però è in agguato, perché questa è l’ultima notte di Nora: il giorno successivo si ritirerà in convento di clausura sull’isola di San Giulio, al centro del lago d’Orta: prende i voti, con il nome di suor Beatrice. Non per questo la passione di Strozzi diminuisce; anzi, idealizza Nora come l’occasione sentimentale della sua vita. Così, quando l’amica (con la quale è rimasta in contatto telefonico) gli chiede di indagare per conto suo su un fatto di sangue, l’uomo abbandona la vita da eremita che sta conducendo in un paesino montano della Valsesia, e si mette a caccia.
È accaduto che la madre ultraottantenne di Nora ha investito con l’automobile e ucciso una donna a Vercelli, senza che vi sia alcun legame apparente tra le due. Non solo: al successivo processo, che si è tenuto in tempi insolitamente brevi, la donna ha ammesso la propria colpa senza neppure tentare di giustificarsi. Quale storia c’è dietro questo strano delitto? Perché deve per forza esserci un rapporto di causa-effetto tra la vittima e la madre di Nora? A Romolo Strozzi non interessa la ricomposizione di un ordine anteriore, un’armonia predelittuosa; gli interessa la verità, che come un rebus si affaccia e si nasconde dietro dettagli apparentemente inspiegabili.
Il romanzo si muove tra una Vercelli chiusa nel lockdown e un’Orta notturna, vagheggiata. Sottolineo che sempre più la cittadina lacustre diventa ambientazione per letteratura gialla nella provincia italiana: si veda, per esempio la recensione di La regola del rischio di Matteo Severgnini.