Rebecca F. Kuang / Il plagio ai tempi di Netflix

Rebecca F. Kuang, Yellowface, tr. di Giovanna Scocchera, Mondadori, pp. 384, euro 22,00 stampa, euro 11,99 epub

Entrambe hanno studiato a Yale dove per un po’ si sono frequentate come amiche ma ad Athena Liu, appena finito il college, si sono immediatamente spalancate le porte del successo editoriale, a Juniper Hayward solo quelle di un dimenticabile esordio.  Athena ha carisma, un enorme talento e un’autorevole famiglia sino-americana alle spalle; non ultimo è una scrittrice egocentrica e strafiga, Juniper il meme vivente di un insignificante donna bianca della periferia americana. O, almeno, tale da sempre si considera, come scopriamo non appena ci ritroviamo nei suoi stracci di protagonista e di narratrice, dalla prima pagina di Yellowface finendo per condividere i suoi deliri.

Sono le premesse di un romanzo satirico dove il termine “appropriazione culturale” risulta alla fine persino una pudica perifrasi rispetto al parossismo psicotico di June, decisa a riscattare una vita di frustrazioni attraverso il delitto artistico per antonomasia: il plagio. L’occasione le si offre durante una notte di confidenze, al termine della quale Atena muore grottescamente durante un’assurda gara di plumcake, e l’amica si approprierà del suo ultimo manoscritto inedito: è un romanzo ricavato da un oscuro episodio della storia cinese, ambientato nella prima guerra mondiale. Una storia di guerra e di razzismo sul fronte occidentale, dove decine di migliaia di cinesi, inviati dal celeste impero, sono impiegati come manovalanza nelle trincee dagli Alleati.

Niente di più lontano da June, che ha orrore della cucina cinese e non conosce nemmeno una parola di mandarino, ma che non esita ad appropriarsi del testo e a sbiancarlo adattandolo ai gusti del pubblico americano medio. Su consiglio dell’editore, lo pubblica  con lo pseudonimo di Song, il secondo nome rifilatore dalla madre nel suo periodo tardo hippy, considerato più orientalista e adatto al tema del libro.  Inizia così – dalle stalle alle stelle e ritorno – la resistibile ascesa e l’agonizzante declino della scrittrice che vede fraudolentemente realizzato il proprio scialbo sogno di gloria nell’olimpo dei Big Five (HarperCollins, Penguin Random House, Macmillan, Hachette, Simon & Schuster), tra le vette dell’editoria anglosassone e, quindi, mondiale. Poco importa se questo eden privilegiato assomiglia oggi sempre più a degli squid games per approdare a una serie Netflix: tra party tossici, sensibility readers incazzati e assistenti licenziabili con una mail, tutto è lecito se alla fine riuscirai a entrare nella classifica del “New York Times” e a restarci il più a lungo possibile. Se non ci riesci, un marketing multiculturale affabile nel suo implicito razzismo, che alla faccia della diversity si compendia in frasi tipo “questo mese lo scrittore mussulmano ce lo abbiamo già”, ti accompagnerà invariabilmente alla porta.

Inutile dire quanto la dimensione dei social – e nella fattispecie quella di Twitter ante Musk, con le spunte azzurre non ancora messe in vendita – sia per la scrittrice e le sue numerose odiatrici e odiatori quello che il mare è per Nemo: l’elemento acquatico naturale a cui tornare per posizionarsi e scalare in popolarità e in cuoricini, mostrando ancora una volta, a se stessi molto prime che ad altri – di esistere.

Rebecca F. Kuang, di cui abbiamo presentato tempo fa il romanzo fantasy e “black academy” Babel è una scrittrice sino-americana che, uscendo dalla narrativa di genere, ci racconta questa volta di una “collega” bianca frustrata che, entrata maldestramente in possesso di una storia che non è la sua, si scontra anche con il copione che il mercato riserverebbe canonicamente alle minoranze etniche. Alla fine un’altra storia di spettri e di possessione, in cui il fantasma di Athena, o il suo account Twitter, si leva a ossessionare June, sempre più sprofondata in un esercizio di negazione e di tignosa autosuggestione.  Non tutto nel romanzo funziona alla perfezione – la storia è probabilmente troppo lunga, il POV della narratrice a un certo punto offre minori appigli al lettore – ma l’operazione, in se geniale,  dimostra l’evoluzione e la maturità di Kuang, confermando tutto il nostro interesse per questa autrice.