L’immaginario western americano ha sempre esercitato un’attrazione magnetica, a ogni latitudine. Era dunque fatale che il cinema, arte visionaria per eccellenza, sin dagli esordi costituisse su quell’immaginario uno dei suoi generi di maggior fortuna. Nel Paese in cui esso originò si venne a creare una poderosa industria cinematografica che propagò nel mondo il mito del West, grazie a icone immortali – John Wayne, James Stewart, Glenn Ford, Henry Fonda, Gary Cooper e numerosissimi altri – che incarnavano personaggi reali e frutto di fantasia, alle prese con storie che affondavano nelle strutture profonde della creatività umana, opera di abilissimi sceneggiatori e messe in pellicola da straordinari registi e direttori della fotografia.
Sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso, e soprattutto nel decennio successivo, anche l’industria cinematografica europea – e in particolare quella italiana – cominciò a sfornare pellicole di genere western, amplificando a dismisura il mercato, sfaccettandone i temi e ampliandone la ricezione da parte degli spettatori. Il fenomeno fu di vastissima portata – sociologica, antropologica, politica – e dalla metà degli anni Sessanta gli studiosi più avvertiti si lanciarono in indagini più sistematiche, anche con la scorta di nuovi strumenti metodologici. Tra i vari studi, nel 1966 (e riedito nel 1993) in Francia apparve un lavoro collettaneo curato da Raymond Bellour, studioso e critico cinematografico di livello, che raccoglieva acuti contributi che affrontavano il discorso da varie prospettive. Curato e tradotto da Gianni Volpi, con la prefazione di Goffredo Fofi, quel lavoro è stato pubblicato da Cue Press, editore che continua la preziosa opera di ricerca e riscoperta di testi fondamentali del discorso teorico e critico – ma anche biografico – del teatro e del cinema mondiali. Già dal titolo, il volume si presenta come temerario tentativo di esaustività della ricerca, e certo non si rimane delusi: siamo davanti a uno degli studi più completi sull’argomento, un’analisi metodica del western con i suoi relati mitici, i fondamenti storici, i risvolti sociologici ed ideologici, i rapporti con le varie arti che se ne sono nutriti.
Nella sagace prefazione, Fofi ricrea l’accesissimo dibattito sul tema che originò in Italia negli anni Sessanta – anche in risposta alla proliferazione di un genere autoctono, il western all’italiana, che rivoluzionò il mercato cinematografico del nostro Paese, sovrapponendosi alla matrice originaria –, le diatribe tra l’affilata critica nostrana e quella d’Oltralpe. Nella prima parte del volume si affronta il cinema western americano da diverse angolature critiche; nel suo saggio, il curatore parte dalla “seduzione” suscitata dal “più antico e il più giovane” dei generi, considerandolo – e titolando l’articolo – come “un grande gioco”, una “arte ludica” e dunque perpetua e immortale, ma riconducendolo all’alba della storia e della civiltà americane, e leggendolo quale veicolo di miti e valori: un acuto discorso “giocato” tra storia e utopia. Roger Tailleur sofferma la sua analisi sul contesto da cui il western generò e si diffuse, analizzando “il retroterra sociale, storico, letterario, musicale, figurativo, etnografico, linguistico”: insomma, una “navigazione perigliosa” che si propone di “risalire dall’oceano Western ad alcune sorgenti”. Bernard Dort focalizza l’attenzione sulla “nostalgia dell’epopea”, rintracciando il sostrato epico del western, ritenendolo l’equivalente moderno dell’epopea. André Glucksmann preferisce invece indagarlo come forma di tragedia, tracciando una differenza tra “western classico”, che rivelava un mondo epico, e “nuovo western”, memoria dolorosa di quel mondo divenuto passato, metamorfosi che mette in atto un processo di storicizzazione di un sostrato mitico e valoriale fondativo. Il nostro Gianni Volpi affronta la crisi che il genere attraversò nel Paese in cui vide la luce, a partire dagli anni Sessanta, segno della crisi dei valori-guida del West – l’individuo e la libertà, il canto dell’azione, dei grandi spazi aperti, il mito di una sempre nuova frontiera – che a lungo hanno operato come mitologema culturale di una società, autentico “retroterra storico e ideologico” di una nazione – il liberalismo –, e in tal ottica analizza il “nuovo western”, sottolineando le differenze intervenute: il modo diverso di considerare “l’altro” per eccellenza, cioè l’indiano, la creazione di nuove leggende e la diversa interpretazione di quelle antiche, il Messico quale metafora di rivoluzione, e così via.
Nella seconda parte del volume, “Miti”, si passano in rassegna una profusione di figure e topoi del western – alcolici, armi da fuoco, banditi, bestiame, carovana, cimitero, città deserta, duello, indiano, treno, strada, violenza e così via: ben 51 nuclei tematici. V’è poi una sezione (“Un tomahawk dissepolto”) in cui è riportato il discorso letto alla cerimonia di consegna per gli Oscar del 1973 da una donna Apache (Sacheen Littlefeather, “Piccola Piuma”), delegata dal vincitore del premio quale migliore attore di quell’anno, Marlon Brando (per l’interpretazione di Don Vito Corleone ne Il padrino di Francis Ford Coppola), che rifiutò il riconoscimento per protesta contro il modo in cui l’industria cinematografica rappresentava l’americano indiano; a cui seguono altre parti dedicate ai registi e agli attori, un indice dei western citati e una biografia essenziale. Insomma, siamo in presenza di un testo teorico e di repertorio fondamentale sull’immaginifico universo del western, destinato a chi voglia partire per successivi approfondimenti, o a chi intenda acquisire le coordinate principali per muoversi nelle sconfinate praterie reali e metaforiche dell’Ovest del continente nordamericano, popolate da eroi e antieroi, dense di avventure e peripezie, sogni e incubi vecchi quanto la prodigiosa facoltà mitopoietica dell’essere umano.