Adrien, giornalista classe 1975 in disillusa disarmonia con il suo mondo digitale, racconta la storia del nonno Gabriel, cineoperatore morto più che centenario nel 2009. Omaggio alla memoria, autobiografia, ma non solo. Il romanzo in sé vuole essere un’evocazione: “per fare gli scrittori bisogna saper evocare gli spettri”, professa Adrien, e il primo capitolo si apre sul fantasma di Hélène, la sorella maggiore di Gabriel, che nel 1913 decide di tirare fuori la cinepresa paterna – una Pathé-Kok, appena disponibile sul mercato – e filma il fratellino, 5 anni, nel lungo corridoio a forma di L della bella casa di famiglia a L’Étang-la-Ville, piccolo borgo allora rurale e oggi banlieue chic dell’ovest parigino. Un film che Hélène non vedrà mai: morirà la settimana seguente per un banale incidente, a undici anni. Raccontare la vita di Gabriel significa dunque raccontare la vita di una persona abitata da un’assenza. Significa anche ripercorrere il secolo attraverso la storia del cinema e interrogarsi sull’evoluzione della “settima arte” nel Novecento.
Per l’intreccio tra ricordi familiari e prodezze tecniche, il libro di Meltz, uscito in Francia nel 2021, ricorda un romanzo di Philippe Forest, Il secolo delle nuvole (del 2010, tradotto in italiano da Gabriella Bosco per Aliet): anche qui si evoca un nonno, aviatore; anche qui si parla di fantasmi e di assenze. Meltz tuttavia si distingue per la riflessione sul rapporto tra arte e reale, sovrapponendo l’occhio dello scrittore a quello del cineoperatore.
Lungo i capitoli, scorre la pellicola del secolo breve: al Père Lachaise, il 29 marzo 1923, Gabriel filma i funerali di Sarah Bernhardt; a vent’anni, dopo un tentativo fallito per Gaumont, entra nella società di produzione e distribuzione Pathé, dove riceve l’incarico di filmare l’“attualità”. Seguiranno: Marsiglia, 9 ottobre 1934, con l’assassinio di Alessandro I di Jugoslavia; la guerra e la liberazione; il Goncourt di Malraux e la Nouvelle Vague. Tutto viene registrato dall’occhio di Gabriel: artigiano, dunque, più che artista e proprio per questo un eccellente soggetto per interrogare la relazione tra arte e tecnica, tra invenzione e testimonianza, tra scrittura e cinema.
A stimolare la riflessione interviene la struttura del romanzo, quasi dialogica poiché ogni capitolo è pensato come un’unità doppia, distinta da titoli inseriti in parentesi quadre (forse per ricordare i fotogrammi della pellicola), sottoscritti a lettere dell’alfabeto o a numeri. È sempre la voce di Adrien a portare il racconto, ma il suo sguardo si concentra ora su di sé, ora sul nonno: nel primo caso, le parentesi quadre dei titoli, sottoscritte a lettere dell’alfabeto, contengono un toponimo; nell’altro caso, il racconto è preceduto dall’iscrizione di un anno, sottoscritta a un numero (e dunque: A [Las Vegas], 1 [1913]; B [Relais de Belleville, Parigi], 2 [1919], e così via). Come dire: a Gabriel, il tempo; lo spazio a Adrien. Da una parte la pulsazione, il ticchettio dello scorrere della pellicola; dall’altra, il ventaglio dell’alfabeto, tavola ouija dello scrittore che evoca spettri. E se è vero che il cuore del cinema batte a una pulsazione di 24 fotogrammi al secondo, donde il titolo 24 volte la verità, è anche vero che la verità di un frame non può essere che parziale, insufficiente, quando non fuorviante. “Méfiez-vous des morceaux choisis”, scriveva Tabucchi (altro evocatore di spettri), e la letteratura proprio per questo viene in contrappunto all’immagine. È significativo, ad esempio, lo scoramento di Gabriel nel filmare il campo di Dachau alla fine della guerra, perché quelle immagini “sono soltanto un granello di polvere rispetto alla montagna di sofferenza che vorrebbero raccontare”.
È un libro a tratti commovente, dal periodare spesso franto in punteggiature più emotive che logiche. Una musicalità tutta francese, forse; in ogni caso non facile da rendere. Si è scossi dall’addio agli amici di Adrien: Antonio, il fanfarone, e il puro Albert. Ma forse il momento più toccante del libro è il discorso del nonno, ormai vecchio, in occasione di una conferenza dal tema “Filmare il mondo – Filmare il Novecento”. Torna l’immagine iniziale del corridoio. Quella L che, immaginiamola adesso rovesciata poiché siamo in un processo di ringkomposition, si ricongiunge al suo doppio iniziale, formando proprio una casella: il frame della pellicola. “Sono stato – sostiene Gabriel – il corridoio che iniziava da quello che stava davanti alla mia cinepresa e finiva su uno schermo”. Chi ci dice che, là dove noi crediamo che il corridoio arrivi a una fine, non si nasconda una svolta che solo l’artista sa trovare?