Paesaggi italiani. Geografie della mente la cui immediatezza di visione si traduce in giornate, per i protagonisti di queste storie, per niente clamorose. Leggendo viene il sospetto che i degradi territoriali siano la parte meno peccaminosa dell’attuale disfacimento civile. Raffaele Simone, in questa serie di racconti scritti fra il 2004 e il 2007, e ora raccolti, ritrova la visionarietà che li aveva fatti crescere sull’orlo di un’onda degradata e anche un po’ maligna d’incompetenza umana. L’incompetenza, affettiva e morale, mostrata dai personaggi che si muovono dentro tante piccole e medie catastrofi quotidiane, fra cinismi e vistose deflagrazioni: l’inarrestabile paranoia da individuale diventa collettiva. Ragazzi giocano a pallone nei cortili cittadini e diventano mostri incontrollabili per chi deve sopportarne gli schiamazzi, tanto da meritare interventi estremi, carichi perfino di venature mafiose. Un uomo e una donna s’incontrano su un’isola mediterranea in piena estate, niente di così strano ma qualcosa non va, anche un semplice (e banale) flirt avvolto dalla calura vacanziera sembra scivolare verso momenti irreparabili, scatti della realtà che portano alla fine del tempo, così come accade nel Sorpasso quando la Lancia Aurelia guidata da Gassman precipita sugli scogli.
Ogni racconto di Jazz Café ha le sue vittime, tallonate da piccoli misteri quotidiani, dove certi dettagli ci portano amabilmente (ma attenzione, nulla è come sembra) nei luoghi – più metafisici, certo – dove Buzzati s’avventurava oltre mezzo secolo fa. Altri tempi, altre geografie, oggi l’horror non ha più le stesse sfumature, e il mistero viene tagliato con l’accetta del digitale. Simone, da saggista della modernità e lessicografo, guarda ai dettagli, che spesso sono più profetici di quanto inquadrato dal grandangolo: logico che lo scrittore si trasformi in un reporter di quell’umanità che presto si trasforma in folla di derelitti. Presi uno per uno, questi umani diventano compagni di disastro. Ogni loro giornata sceglie i momenti meno adatti affinché la storia prosegua senza intoppi. Non è la surrealtà a interessare Simone, ma i lati più a fuoco e riproducibili che deturpano la mente immersa nell’acquario dell’esistente.
Quasi sempre i personaggi di questi racconti si credono autorevoli, mentre non hanno affatto idee chiare su quanto li circondi, ne subiscono le distorsioni proprio quando regole al di sopra di loro spezzano le geometrie del paesaggio tanto da ridurlo all’irragionevolezza assoluta. Sentiamo bene il dramma a cui sono portati, temendo le uscite in strada e il suono del campanello alla porta, ma la maniera dell’ironia improvvisamente ci appare maldestra e il lessico fin qui usato ci si rivolge contro: preferiremmo una via d’uscita che Simone giustamente non ci offre, spazza via la diffidenza e nudi veniamo destinati al mondo con cui non si scherza. Se non altro lo scrittore ha raccolto in un bignami, invitante alla prevenzione, le vittime della sua fabbrica di domiciliati nella geografia ultra-ordinaria.
Non si discute col diavolo, diceva Manganelli, ancora più micidiale cercare di conversare con la felicità nelle pieghe infinite della realtà quotidiana, nel nostro tempo in cui la diffusione mentale è diventata un’orgia d’opaco deliquio. Venti anni fa Simone già descriveva le fasi iniziali del “gran vuoto”. Preciso, inconfutabile, in presa diretta.