Raffaela La Capria scrive, e si fa scrivere, dalla trincea della sua epoca che ha potuto allestire un memoriale pressoché eterno, nonostante i posteri attuali facciano di tutto per gettare l’insieme in un cartoccio amnesico d’infima fattura. Ricordi letterari e esistenziali, l’opera e i giorni, si sono però rimessi in carreggiata ben distanziati da vacue operazioni nostalgia, attraverso raccolte di testimonianze e ritratti di amici cari, scomparsi, una generazione che comprende Moravia, Morante, Parise, Rosi, Garboli, Ortese, nomi consegnati alla storia letteraria e quella parte di Novecento che vorremmo salvare dal resto abnorme corrispondente al nome di guerre mondiali, Shoah e bomba atomica.
Ci sono amici disinvolti e implacabili, capaci di inventare teorie estetiche, formative e perfino sociali. Ci sono, nei luoghi e nel tempo di La Capria, eccellenti prove di impegno, e piacere, e storie a cui riferirsi per coglierne lezione, una volta per sempre: uno per tutti, il romanzo Ferito a morte che resiste al passare dei decenni come pochissime altre opere. La multiforme voce di La Capria, influente più di quanti possano ammetterlo e giovarsene, è radunata nei due volumi dei Meridiani curati da Silvio Perrella, su cui a suo tempo scrisse Alberto Arbasino con sostanziale accortezza, e grandi cognizioni sull’epica della realtà, la stessa che lo scrittore napoletano ci ha elargito (facendola emergere dai nostri sensi sopiti) lungo la sua centenaria esistenza.
In un flaccido autunno italiano vengono alla luce le lettere qui raccolte, uno scambio epistolare fra La Capria e gli amici, un percorso a doppio senso in cui quest’ultimi si raccontano, chiedono lumi, sgombrano eventuali foschie, si soffermano su libri e opere lette, cercate, riferendosi alle novità pubblicate da “Dudù”. Un arco di tempo disteso fra gli anni Cinquanta e l’attuale decennio, fino all’esito estremo della morte di La Capria avvenuta nel giugno scorso. È stato il suo “secolo”, ben distinto in questo volume dove il dialogo spande affetti (molti), amarezze, critiche più o meno velate col conforto d’intelligenza scambievole: tutte cose diventate rare come le terre esotiche, come la vecchia Capri, leggendaria dimora di sempre che resiste con fatica allo scempio climaticamente umano.
Autore fuori dalle mode, uomo appoggiato su questioni che altri potevano fare proprie, portato al bene e alla bellezza territoriale almeno quanto in certi momenti abbia potuto distanziarsi dalla Storia. La pena sarebbe stata l’essere spazzato via, così come milioni di suoi simili. Per gli amici di anni recenti, per chi aveva l’immagine precisa di una Capri abitata una volta e per sempre, isola “erotica” messa lì da disinvolture e favore degli dèi, da un certo mese in avanti è stato difficile resistere alla dolorosa sparizione. Alcuni giovani si guardano intorno, cercano l’eredità, stentano a credere di farne parte, anche se infine tutte le arie annusate sul Mediterraneo novecentesco stazionano ancora: nei libri, nei numerosi memoir, nelle numerose epistole. Lo stato delle cose è dato, fra remote stagioni e narrazioni giunte non per vie miracolose ma per lavoro pioneristico. L’uomo stava lì, accomodato, fra rocce e vestigia e cielo. Ogni volta che partiva sapeva addestrarsi al ritorno. Con l’amore (Ilaria Occhini), sempre presente. Ad aspettarlo. Pur essendo già salpata, soltanto tre anni prima, verso l’imponderabile.