Immaginate un giovane scrittore pugliese che conduce una vita da bohémien a Parigi, dentro i quartieri dei pittori, dei letterati e dei musicisti, negli anni Venti del secolo scorso. La materia per scrivere un romanzo ce n’è a iosa: basta mettere insieme il puzzle dei ricordi, conferire loro un ordine fintamente casuale e il gioco è fatto. Fame a Montparnasse di Raffaele Carrieri – pubblicato originariamente nel 1932 presso l’editore Bietti e ora riproposto da Musicaos con la meticolosa cura di Antonio Lucio Giannone – è una raccolta di racconti autobiografici in stile autofiction, con sorprendente anticipo sui tempi. Per nulla incrostato o, peggio, ingrommato dai sedimenti di una lingua vetusta, il florilegio si ripresenta a noi in grande spolvero, soffuso di quel tragico humor che è sinonimo di una condizione da déraciné metafisico.
Carrieri, nato a Taranto nel 1905, ebbe un’adolescenza a dir poco turbolenta: diviso tra Albania, Montenegro, Francia e Sicilia, a quindici anni si unisce con i legionari dannunziani di Fiume, dove “in uno scontro con le truppe dell’esercito regolare – ricorda Giannone – durante il cosiddetto ‘Natale di sangue’, subì una grave ferita alla mano sinistra”. Dieci anni dopo manda alle stampe il suo primo libro, Scoperta di Eva; mentre l’anno successivo tocca a Turno di notte (1931). Comincia intanto a collaborare come critico d’arte per alcuni quotidiani, compreso il Corriere della Sera.
Fame a Montparnasse è la sua terza opera, composta da diciannove bozzetti-mémoires modellati sulle Scènes de la vie de bohème di Henri Murger. Il filo conduttore di questi episodi apparentemente slegati è l’io narrante alle prese con i bisogni elementari dell’esistenza (“un po’ di cibo per sfamarsi e un posto dove dormire”): insomma, Carrieri che “fa da modello ai pittori, lo sguattero in un ristorante, lo scaricatore al mercato ortofrutticolo, il mozzo su un battello e il venditore di tappeti”. Frequenta, inoltre, il Caffè Dupont a Montmartre e delinea i tratti fisici di Max Jacob in questo modo: “Certo si è che la prima volta che vidi la sua maschera gotica, illuminata dagli occhi spiritati non la dimenticai più. In quel tempo la mia vita era piena di maschere strane; ma questo non conta. Quella di Max, bianca forte e incavata, mi era rimasta impressa nel cervello come la testa di un ghigliottinato”. Nel novero dell’ampia carrellata umana del libro figurano: il violinista rumeno Zindianapolis; Albertine Boissonet, una ballerina malata di tisi; il temibile Kid, venditore di tappeti turchi falsi; la sua amante Fanny, che gestisce una maison; e poi la leggiadra Iseline, incontrata in una camera dell’Hôtel du Nord, unica dispensatrice di gioie perdute. “La felicità è senza senso; improvvisa, fugace… È aprire e spegnere l’interruttore, sentire sulla pelle il fresco delle lenzuola; lasciar scorrere il rubinetto, aver paura dei cassetti chiusi; ricordare tante cose lontane e vicine senza pensare a niente. Baciare nella bocca la propria amante e graffiarsi il naso…”.
La scrittura di Carrieri – autore “leggendario”, come osserva Giorgino nel suo profilo biografico –, a metà tra l’esotismo sentimentale del romanzo d’intrattenimento e il lirismo esacerbato della prosa d’arte (anche Messico di Emilio Cecchi esce curiosamente nel ’32: dal punto di vista della suggestione di genere non siamo lontani), abbonda di costruzioni paratattiche, frasi nominali secondo una felice attenuazione del paroliberismo marinettiano. Un vago sentimento di nostalgia, sapidamente mescidato a questa sintassi franta e ridanciana, ci fa intravedere i contorni di anelito e adempimento che permeano la poetica di Carrieri: “I tram, lontani, sembrano giocattoli abbandonati su letti troppo grandi. Parigi non esiste più; si è sciolta nell’aria come un immenso bucato. Vorrei stendermi su questo candore e dormire. Dormire lungamente come quando all’Ospedale della Carità, le suore accendevano le lampade e pregavano Gesù”.