Rafał Wojaczek / In ascolto delle viscere: nel corpo lacerato della poesia e del mondo

Rafał Wojaczek, Il poeta andava fucilato. Poesie scelte 1964-1971, tr. e cura di Francesco De Luca e Bożena Topolska, Delufa Press, pp. 212, euro 19,00 stampa, euro 7,99 epub

Immaginate i versi maledetti e modernissimi dei Fiori del male di Baudelaire e della Stagione all’inferno di Rimbaud – amore morte viaggi tossici e onirici ascesa e sgretolamento della società moderna e passioni estreme e smodate – mescolati forte e risputati fuori in polacco nel bel mezzo della Guerra fredda e avrete un capolavoro di poesia infervorata e dolente. Questa traduzione, per la prima volta in italiano, dei versi del poeta Rafał Wojaczek (1945-1971), per i tipi di Delufa Press, giovane, intraprendente e indipendente casa editrice romana, giungono fino a noi come una scheggia impazzita e sferzante.

Wojaczek esordisce a vent’anni, nel 1965, con sette poesie dal tono provocatorio e certamente dissonante con la Polonia dell’epoca: oppressa dalla cappa sovietica e, nel 1969, la sua prima silloge squaderna in forma di metafora quelli che saranno per lui questioni dominanti, quasi delle ossessioni: lo sgretolamento del mondo, la paura, l’amore e il corpo. In quel volume, nei versi di Era primavera era estate, Wojaczek scrive del trascorrere dei giorni e della motivazione del poeta che si affievolisce: il poeta che “non incanta più ma bestemmia” e che al contrario prima “incantava” “Per la patria, questa materia di morte non riuscita”. L’estrema consapevolezza della caducità del corpo detta letteralmente il passo di versi scanditi dall’urgenza di sviscerare – quando non eviscerare – la rabbia l’amore il dolore. I versi di Wojaczek nascono dentro e sul corpo, sono versi che dal corpo promanano come lacerazioni: è un corpo che è vivo in quanto straziato: “Di tanto in tanto / per controllare / se sono vivo ancora / mi pungo con uno spillo / e m’inserisco un piccolo / trapano nel cranio”.

La poesia, per il maledetto poeta polacco, è un attraversamento drammatico di fiumi di sangue e sperma che scorrono, inesorabili, verso “La fine della poesia” stessa che

[…] dovrebbe essere in un corridoio buio
di una casa popolare che sa di cavolo come una latrina
Dovrebbe essere la benedizione inaspettata di un coltello
Sotto una vanga o un piede di porco alla tempia conciso come un amen

Dovrebbe essere un carrarmato di un cielo scatenato
La fine della poesia dovrebbe essere più veloce anche del pensiero

Wojaczek celebra malinconicamente un mondo decadente, militarizzato e recintato, dove la disperazione evoca miseria ed escrementi. Versi quali “Cammino e chiedo: dov’è la mia forca?” raccontano come in molti versi il percorso verso la morte sembra segnato, anche se la pratica stessa del fare poesia è un luogo di r/esistenza in vita: esserci in voce e corpo prima dell’inaggirabile putrefazione. Si tratta di una forma di resistenza che Wojaczek instilla in versi spesso estremamente lirici e travolgenti perché, occorre dirlo, questa è una raccolta poetica incendiaria che ci riconcilia con una poesia di materia pulsante viva o quasi morta che, in questi nostri tempi malandati, votati a forme oscure di disumanità troppo disumana, ci restituiscono una pietas profonda verso tutto ciò che attraversa il nostro passaggio (sempre troppo) breve su questa Terra.
Questo volume dovrebbe finire tra le mani di giovani lettori e lettrici, qui e ora, per riconnettere l’Europa nel segno dell’urlo, ritornare a Est seguendo un ago che, se da un lato sfila la trama della Storia fino al 1989, dall’altro ricuce ipotesi di futuro, perché da Est viene il futuro, si ode stridere e sollevarsi dalle strade di Belgrado e di Istanbul – come dalle strade di Praga era arrivato il 1968. Ed è dallo stridore e dai corpi lacerati, ci ricorda il giovane Wojaczek, del resto, che si fa la poesia.