Scrittore colpevolmente misconosciuto in Italia, Radoslav Petković approda in libreria con il suo romanzo Il destino che mi portò a Trieste, già premio NIN nel lontano 1993. Dietro le fattezze di un romanzo a metà fra lo storico e l’avventuroso, l’autore serbo parla della nostra tormentata modernità. Siamo nell’Europa attraversata dalle guerre napoleoniche, che ridefiniscono i confini degli Stati e sconvolgono le vite delle persone. L’umanità si abitua a pensare che il caos imperante sia la normalità, mentre la pace è un’effimera illusione. In questo scenario si muove Pavel Volkov, giovane tenente della marina imperiale russa impegnato in un viaggio rocambolesco che lo porta da Corfù a Trieste. Una sensazione di inutilità lo affligge, un presentimento che qualcosa, in qualche modo, non sia andata per il verso giusto. Una rete invisibile lo stringe in un percorso labirintico, non immemore dei mondi fantastici creati da Borges. La materia concreta si mescola al mondo onirico, così che non è possibile distinguere fra realtà e finzione. L’insolito si insinua nel quotidiano, in maniera subdola, ad esempio nelle fattezze di Spiridione, pittore di icone dai comportamenti folli e dalle capacità visionarie.
Come nella narrativa di Bulgakov, il mondo è governato da forze sconosciute. Tutto sembra restare uguale, eppure qualcosa è mutato, inevitabilmente. La realtà appare come una quinta teatrale, montata ad arte da qualcuno. Il linguaggio non facilita la comunicazione, ma agita le menti come un mare tempestoso. Il tempo appare confuso, come se ciò che deve ancora accadere fosse in realtà già accaduto. Portando alle estreme conseguenze la dicotomia dell’animo umano, diviso fra bene e male, scisso in Jekyll e Hyde, Petković percepisce nell’uomo una diabolica complessità. Esistono non uno ma più Pavel Volkov, i quali lottano fra loro, si accalcano, si imbavagliano vicendevolmente così che uno, a turno, prende il sopravvento sull’altro. Un progressivo delirio si impadronisce di lui. Sul filo di tali ambiguità si svolge la missione del protagonista, il quale a poco a poco oblia il proprio incarico spionistico per abbandonarsi a una incerta storia d’amore.
Il destino del titolo si rivela forza ineluttabile. Molto, forse tutto ciò che accade nella vita prescinde dalla volontà individuale. La qualità narrativa di Petković si rivela nella capacità di far presentire il mistero che abita le nostre vite, lo smarrimento che le infesta. Il mondo è ostile e, cosa ancor peggiore, indifferente. Lo scrittore capisce di non poter gestire del tutto la propria storia, così come il protagonista non gestisce la propria vita. Forze oscure governano l’esistenza. Per questo, rivolgendosi direttamente al lettore, svela le difficoltà nel dipanare una storia che si sviluppa nel tempo; ogni narrazione è, inevitabilmente, incompiuta. Da queste premesse, con un salto temporale inaspettato, ci conduce sino alla rivoluzione ungherese del 1956, soffocata nel sangue dai sovietici. Frammenti di storia serba si mescolano alla materia principale, accadimenti lontani nel tempo che offrono una panoramica dei conflitti che da sempre agitano i destini dell’umanità. Essere testimoni diretti di un evento non significa comprenderlo, in quanto è parte di un insieme arduo da abbracciare nella sua interezza. “Ognuno di noi nasce in una storia che non ha scelto”, afferma lo scrittore. Il mondo che reputiamo autentico è un gioco di ombre, un mare dei cui abissi sapremo sempre troppo poco, una foresta aggrovigliata che confonde il cammino. Trasformare questa selva ostile in un giardino è la sfida che l’uomo deve affrontare per raggiungere un’utopica saggezza.