Rachel Kushner o della fortuna di avere avuto genitori comunisti

Ci voleva uno sguardo esterno per scrivere il più bel romanzo del movimento politico del '77 italiano. Così preciso che Nanni Balestrini si riconobbe in uno dei personaggi e volle conoscere l'autrice, la statunitense Rachel Kushner la cui scrittura è stata da molti paragonata a quella di Don DeLillo. Ma in tutta l'opera di Kushner c'è molta Italia.

Penso che la ragione per cui sia stata finora tradotta nel nostro paese tutta la narrativa di Rachel Kushner, autrice non esattamente “facile”, sia perché in un modo o nell’altro nella sua scrittura c’è tanta Italia.

E poi no, mi dico che non è così: l’Italia c’è di certo, ma solo ne I lanciafiamme, oltre che nei saggi di The Hard Crowd, ancora inedito da noi, e oltretutto è un’Italia che ci stiamo impegnando con tutte le nostre forze a dimenticare, a rimuovere: gli anni Settanta, la stagione della contestazione che seguì l’Autunno caldo, l’inizio degli anni di piombo.

Mi domando allora cosa possa determinare questo risultato così positivo per un’autrice lontana dai best-seller e dalla scrittura commerciale. Il suo stile è stato più volte (per esempio, da David Ulin sul Los Angeles Times) paragonato a quello di Don DeLillo: inizio in media res, terza persona singolare, intessuto di salti temporali, digressioni,  ma con una voce reticente, poco incline a concedere confidenza al lettore. I suoi personaggi si comportano in maniera imprevedibile, senza ragione apparente; i loro moventi rimangono misteriosi, non c’è nessun messaggio recondito, ma proprio per questa ragione le sue storie si muovono straordinariamente vicino alla verità della vita.

Rachel Kushner è nata nel 1968 in Oregon, e ha vissuto la propria adolescenza a San Francisco.  I due genitori erano scienziati appartenenti alla generazione beatnik, che si professavano comunisti: “fortemente anticonvenzionali”, li descrive Kushner in più di un’intervista. I nonni paterni erano entrambi iscritti al Partito. Quando Rachel ha cinque anni, mentre aiuta la madre a mettere in ordine alfabetico i volumi sugli scaffali di una libreria femminista, comincia a pensare se stessa legata ai libri, e immagina di diventare scrittrice.

A diciotto anni trascorre qualche tempo in Italia per un programma di scambio studentesco; impara la lingua, e al ritorno comincia a lavorare dopo la scuola nei night club di San Francisco. Studia economia politica all’università di Berkeley, concentrandosi sulla politica estera degli USA in America Latina, e frequenta un corso di scrittura creativa alla Columbia University di New York, con Jonathan Franzen. Il suo romanzo d’esordio a quarant’anni, Telex da Cuba, è ambientato nell’isola caraibica al tempo della rivoluzione castrista, precisamente nella  Provincia de Oriente.

Telex from Cuba (2008: Telex da Cuba, Mondadori, 2010, e poi ripreso da Ponte alle Grazie, 2015, con il titolo Braci nella notte) le costa tre lunghi viaggi nell’isola, nell’arco di sei anni durante i quali vive a New York e lavora nella redazione di riviste d’arte. Il risultato è entusiasmante, considerato che si tratta di un esordio (nella fiction almeno, perché già da otto anni Kushner pubblicava interventi sulle riviste nelle cui redazioni lavorava). Telex da Cuba intreccia le storie di diversi personaggi, soprattutto statunitensi alla fine degli anni Cinquanta, nel corso della sollevazione armata dei barbudos. Racconta il disastro del colonialismo americano, e l’ineluttabilità del suo rigetto da parte di un popolo che prende coscienza della situazione economica in cui è stato cacciato. Il punto di vista è quasi sempre quello di adolescenti che cercano di comprendere il mondo degli adulti, e si danno spiegazioni dei fatti e dei fenomeni che non sono assolutamente in linea con la prospettiva politica della generazione precedente. Sono i primi vagiti di quella rottura rivoluzionaria generale che si rivelerà negli anni Sessanta in tutto il mondo, e che Kushner riprenderà nel romanzo successivo.

The Flamethrowers (2013, I lanciafiamme, Ponte alle Grazie 2013) è il libro che porta Kushner al successo, e meritatamente. Il romanzo mescola tre aspetti autobiografici dell’autrice: la passione per la motocicletta, la scena artistico-esistenzialista di New York negli anni Settanta e le lotte dal basso in Italia dopo il Sessantotto e l’Autunno caldo operaio. È significativo che per la copertina originale Kushner abbia scelto un’immagine tratta dalla prima pagina della rivista I Volsci (il numero 10 del marzo 1980), mensile dell’autonomia  operaia romana uscito in undici numeri tra febbraio ’78 e ottobre ’81: il primo piano di una giovanissima ragazza con capelli biondi e trecce, che guarda nell’obiettivo, e due cerotti incrociati a X sulle labbra. Come rivela Kushner stessa in The Hard Crowd, l’editore non voleva usare quella foto perché la persona ritratta avrebbe potuto riconoscersi, secondo il principio: “Mettiamo che abbia cambiato vita e sposato un grosso banchiere o un famoso politico in Germania [i lineamenti della ragazza non fanno pensare a un volto italiano], e non gli abbia raccontato del suo passato radicale, che il libro renderebbe pubblico”.  Kushner allora replica: “Questa sì che diventerebbe una bella storia”. Finora a ogni modo la protagonista non si è rivelata.

La trama de I lanciafiamme è costruita sulle vicende di vari personaggi, ricca di aneddoti, divagazioni laterali, storie tra invenzione pura e accurata documentazione, che poco concedono all’introspezione o allo psicologismo.

Protagonista e voce narrante del romanzo è la ventiduenne Reno, che si trasferisce a New York per inserirsi nel mondo artistico della città.

Kushner osserva il mondo artistico di New York alla fine degli anni Settanta con precisione sardonica e umorismo pungente, attraverso la capacità narrativa di Reno, per riempire le sue pagine di ritratti vivaci e scandalosi camei. La New York di Kushner è piena di artisti, gradassi, perdigiorno, entusiasti dell’estetica. La maggior parte degli artisti sono grandi narratori; molti di loro sono fantasisti impegnati. (James Wood, Youth in Revolt, The New Yorker, 2013)

L’esperienza iniziale della metropoli non è entusiasmante: l’unica amica che Reno riesce a farsi è una cameriera che in passato ha avuto una parte marginale nella Factory di Andy Warhol, e che dimostra una personalità superficiale. Reno risponde all’annuncio giornalistico per la ricerca di una fotomodella; in realtà si tratta di prestare il viso per una tecnica di messa a punto del colore nelle proiezioni cinematografiche, conosciuta come china girl: l’inserimento di un fotogramma in coda alla pellicola di un film, un singolo volto che permette di tarare il proiettore sulla corretta tonalità della pelle umana.

Reno viene notata da un artista italiano, Sandro Valera, che appartiene a una famiglia di industriali compromessi in passato con il fascismo, giunto vent’anni fa negli Usa per sfuggire a un ambiente che considera claustrofobico: “Quando gli dissi di avere amato Firenze, dove avevo frequentato il mio primo anno di università, rispose, certo, per una donna americana non è male. Ma prova a essere una donna italiana. È una cultura ripugnante, disgustosa. Se un uomo ti violenta ma accetta di sposarti, l’accusa decade. Lo stupro non é nemmeno un reato penale, ma “morale”.

In alcuni capitoli flashback viene raccontata l’avventura industriale della famiglia Valera: tutto iniziò con la passione del padre di Sandro per le motociclette, prima della guerra, quando frequentava compagnie interessate al futurismo, alla “rigenerazione del paese”, che avrebbero poi aderito al fascismo:

Era loro compito mandare in frantumi, stritolare, qualunque idea antiquata, tradizionale, diceva Lonzi, qualunque cosa del passato. Qualunque cosa vecchia e decantata, qualunque decadentismo ed estetismo. Miravano a distruggere zar, papi, re, professori, “pantofolai malati di gotta” come li definiva Lonzi. L’intera cultura ufficiale e i suoi ruffiani, i suoi venditori e le sue puttane.

Reno comincia una relazione con Sandro Valera, che ha quattordici anni più di lei; è da lui che ottiene la moto versione prototipo con cui parteciperà alla gara motociclistica Bonneville Salt Flats, durante la quale  ha un incidente. Per fortuna si procura solo una distorsione alla caviglia (in The Hard Crowd il lettore scopre che è uno spunto autobiografico, ma l’episodio è avvenuto con una Guzzi durante la Cabo 1000 in Baja California, Messico). Reno è una ragazza di notevole bellezza, fa saltuariamente la modella pubblicitaria e inoltre corre in moto: si vede offrire dalla Valera l’opportunità di visitare l’Italia per un tour promozionale.

Ospite della famiglia Valera, prima a Bellagio e poi a Como, Reno scopre che Sandro ha una relazione sessuale con una cugina. Sente il mondo crollarle addosso. Saputo che l’autista dei Valera, un giovane di nome Gianni che lei trova attraente, si sta recando a Roma, lo segue.

Da questo momento inizia per lei un’avventura che forse cambierà la sua vita. Gianni è infiltrato in casa Valera per conto di un movimento extraparlamentare. A Roma i due vivono in una sorta di comune in un appartamento di via dei Volsci (dov’era la sede di Autonomia Operaia, e da dove trasmetteva Radio Onda Rossa). Reno scopre un modo di vita completamente diverso da quello cui è abituata. Assiste a tentativi di auto-organizzazione dal basso degli strati più sfruttati della società; coinvolta in violenti scontri di piazza con le forze dell’ordine, è testimone della dura repressione della polizia.

In termini di controcultura, gli anni Settanta in Italia non erano caratterizzati da buoni comunisti che volevano rinegoziare i loro contratti di lavoro per poter tornare a casa a pranzare con le proprie mogli. Queste persone hanno rifiutato la logica del lavoro, l’ordine della società, e lo spazio del rifiuto era pieno di creatività e nuovi tipi di espressione, intendo nuovi per quell’epoca. Kushner in un’intervista a Meagan Day per la rivista Jacobin).

Tornata a New York, Reno si rimette in contatto con l’ambiente artistico, comincia a mostrare i suoi lavori con la macchina da presa. Un improvviso e prolungato blackout (realmente accaduto nel 1977) precipita New York in disordini simili a quelli cui ha assistito in Italia, con saccheggi, guerriglia di strada e impossibilità per la polizia di controllare il territorio.

I capitoli ambientati a Roma sono accurati, documentati e toccanti. Rifuggendo da ogni tentativo di realismo, Kushner riesce a costruire un’atmosfera in cui il lettore si trova quasi sospeso, al pari della protagonista che in questa parte del romanzo “si lascia vivere” ancora più che i capitoli precedenti e successivi. Non c’è alcun tentativo di giudizio: di fronte alla violenza, politica o meno, Reno non ha ripulsa né accettazione.

Dopo la pubblicazione in Italia de I lanciafiamme, lo scrittore Nanni Balestrini si riconobbe in uno dei personaggi (Gianni, protagonista di una rocambolesca fuga in Francia in sci attraverso le Alpi) e contattò Kushner; i due divennero amici. Balestrini, oltre a essere stato tra i fondatori di Potere Operaio nel ’68, è autore di quel Vogliamo tutto che è il grande romanzo italiano sulla contestazione operaia. È stato pubblicato anche negli USA, Kushner naturalmente l’ha letto e ne parla diffusamente in The Hard Crowd, nel quale c’è anche un intervento molto interessante sull’iconografia che ha ispirato la parte di The Flamethrowers ambientata nel milieu artistico newyorchese, e sull’avanguardia artistica italiana degli anni settanta. Nella stessa raccolta è presente un pezzo in cui l’autrice racconta un film italiano praticamente dimenticato, Anna (1972) di Massimo Sarchielli e Alberto Grifi: un film-verità che osserva impietosamente una giovane di sedici anni, incinta all’ottavo mese, tossicomane e senza fissa dimora, nelle strade del centro di Roma. Kushner tenta di ricostruire cosa sia accaduto a Anna dopo il ’72, ma non ci riesce. Questi capitoli dimostrano una profonda conoscenza di un periodo della nostra storia recente completamente rimosso dalla nostra coscienza.

Anche la terza prova narrativa lunga di Kushner, The Mars Room (2018, Mars Room, Einaudi 2019) [qui una recensione], è raccontata in parallelo da un brano di The Hard Crowd. Al centro della storia c’è l’incredibile brutalità del sistema carcerario degli Stati Uniti.

Com’è noto, gli USA sono lo Stato che ha il più grande numero di reclusi del mondo, benché come popolazione sia superato da molti altri paesi. Protagonista principale del romanzo è Romy Hall, giovane donna che all’inizio del romanzo viene rinchiusa in un carcere della California, dove deve scontare una condanna a vita per omicidio. Secondo punto di vista è quello di Gordon Hauser, professore che ha accettato come ripiego di insegnare nel carcere.

Quasi tutte le prigioni negli USA, carceri federali a parte, sono esternalizzate a gestione privata: il sistema ha quindi un suo guadagno economico, basato sul numero di presenze. È risaputo che la quantità di carcerati appartenenti a minoranze etniche è sproporzionatamente superiore a quella della maggioranza bianca; Kushner mette in scena non soltanto la brutalità del sistema, che invece di correggere la “devianza” si limita a esercitare una specie di vendetta sociale contro gli emarginati, ma anche la sua profonda irrazionalità.

Uno dei saggi più interessanti di The Hard Crowd si intitola Is Prison Necessary? Kushner racconta dell’esperienza dell’abolizionista Ruth Wilson Gilmore a contatto con studenti provenienti dallo stesso ambiente sociale marginale, degradato cui appartengono la maggior parte dei detenuti; condizionati dai media e dal sistema educativo, i ragazzi reagiscono con scetticismo alla proposta di trovare soluzioni alternative all’incarcerazione, e questo malgrado il sistema sia uno strumento della lotta di classe, contro la stessa classe cui appartengono.