È sicuramente una buona notizia il recente, doppio, esordio nella narrativa della casa editrice Tamu – mai lontana, del resto, da esiti narrativi, o anche lirici, con la saggistica ibrida pubblicata negli ultimi anni, come ad esempio con i vari testi di bell hooks o anche Perdi la madre di Saidiya Hartman. È un esordio, nella fattispecie, che racconta di un interesse vivo, e positivamente contagioso, per le storie che provengono da sud e che si mettono di traverso: sono proprio questi, in effetti, gli indovinati sintagmi che formano il sottotitolo dell’antologia di racconti Sciroccate, uscita quasi in contemporanea con L’ascaro di Ghebreyesus Hailu (romanzo anticoloniale del 1927, scritto in tigrino e tradotto per la prima volta in italiano da Uoldelul Chelati Dirar). Ma è Sciroccate, senza dubbio, che illustra più creativamente e più compiutamente il radicamento dell’attività editoriale e culturale di Tamu nelle varie forme della militanza che operano nei e dai “Sud del mondo”, con una carica antagonista, nel “mettersi di traverso”, che ne precisa meglio l’orizzonte culturale e politico. Militanza che si può notare, da subito, guardando all’origine dell’antologia, da rintracciarsi in un laboratorio di scrittura condotto da due voci ormai affermate nel campo della letteratura italiana contemporanea quali quelle di Ubax Cristina Ali Farah e Claudia Durastanti. Il loro specifico apporto è riportato nella doppia introduzione al libro: sono due scritti brevi, ma densi di suggestioni, che poi riecheggiano a lungo nel corso dell’antologia, secondo la forte “circolarità di suoni e cose” ravvisata proprio da Durastanti.
Come segnala invece Ubax Cristina Ali Farah, uno dei primi interessi collettivi del laboratorio ha riguardato i nomi, occasione che le permette da subito un affondo sulla struttura generale e sulle valenze profonde del libro: “Magacaa? (il tuo nome?), si chiede in somalo, mentre in italiano si chiede “come ti chiami?”, quando a chiamarci sono sempre gli altri: il nome ci identifica nel corpo sociale. Allora la storia del proprio nome diventa una storia corale, una compagnia di simulacri, eredità dei nostri padri, a volte una saldatura stridula tra i nomi di due nonne (i corsivi provengono dai materiali del corso)”. Da questo nominare, che non è primitivo ma primigenio, e che non si esaurisce in una dichiarazione identitaria (ma, al limite, genealogica) – sciogliendo fin da subito uno degli equivoci più comuni attorno alla letteratura postcoloniale, o comunque proveniente da diversi “sud” – scaturisce una catena di immagini che continuano a produrre assonanze interne, come rileva Durastanti: “Un bestiario che spesso accompagna il nuovo e vecchio pensiero meridionale, fatto di scorfani, orche, unicorni primogeniti e vermi”.
Anche qui, l’allusione al “vecchio e nuovo pensiero meridionale” è un affondo teorico che ritorna a echeggiare più volte nel libro, dalla riscrittura dell’Isola di Arturo di Elsa Morante al centro del primo racconto – “Acquamurata” di Biagio Mazzella – alle inedite connessioni tra il Meridione italiano e la Siberia, nell’ultimo racconto – “Acquacantiera” di Francesca Boemia. Più che una predeterminazione formale o un orientamento teorico a priori – un rischio forse connaturato all’approccio militante già accennato, ma che risulta abilmente evitato nel corso del volume – le indicazioni di Ali Farah e Durastanti danno utilmente conto delle dieci diverse esplorazioni dell’immaginario che sono antologizzate nel libro.
Compongono questo immaginario – sostenuto da una lingua spesso prolifica e abbondante, al punto di risultare occasionalmente omogenea, se non ridondante, sulla misura dell’intero libro – non soltanto gli animali realistici o fantastici del bestiario già menzionato, ma anche, e con una significativa ricorsività, i pomodori che sono frutto delle terre del sud ma anche dello sfruttamento del lavoro autoctono e migrante. In questo, come scrive Ali Farah riprendendo ancora una volta uno dei racconti dell’antologia, c’è tutta “l’amarezza di un’incompiuta utopia agrofuturista”, con ribaltamento ironico, ma non per questo meno futuribile, di quell’afrofuturismo che l’editoria italiana militante ha negli ultimi anni iniziato a importare in Italia.
Oltre la cortina più o meno fantastica, si tratta, infatti, di un immaginario della violenza – come dimostrano alcuni dei racconti più riusciti, da questo punto di vista: “L’ultima estate delle creature” di Graziana Marziliano, “Le idee di noi” di Antonio Paciello e “La città nuova” di Carmen Notarangelo – che, tuttavia, non esclude aperture e la “schiusura” (dal termine usato da Durastanti nell’introduzione) di un potenziale futuribile.L’abbattimento dei confini (come mostra anche la giuntura implicita tra il titolo del primo e quello dell’ultimo racconto, nel segno dell’acqua) è uno dei primi passi verso questo futuro, che la casa editrice Tamu si appresta a sostenere con il proprio operato.