Succede che, verso la fine dello scorso millennio, Dorothy Allison esordisca con un romanzo semi-autobiografico con un titolo potente: Bastard out of Carolina, cioè La bastarda della Carolina. Succede che il libro, la storia tenera e disperata di Bone, figlia non riconosciuta dal padre fuggiasco, diventi un successo di critica e di pubblico (su The New York Times Book Review George Garrett la definì «vicina alla perfezione»). Succede anche, secondo copione, che una professoressa del Maine assegni il libro ai suoi studenti, che alcuni genitori insorgano, che la professoressa venga denunciata, che il libro divenga il centro dell’ennesimo processo per oscenità cui l’America puritana (che all’epoca bombardava i Balcani senza troppe ambasce) non sa proprio rinunciare.
Contrariamente ad alcuni illustri predecessori quali Urlo di Allen Ginsberg, però, La bastarda della Carolina perse il processo, e lo stato del Maine concesse all’istituto il diritto di vietare la lettura del libro agli alunni. La scrittura di Allison, figlia di un realismo sociale che al cosiddetto white trash del Sud ha dedicato pagine fondamentali quali quelle dell’ormai quasi dimenticato Let Us Now Praise Famous Men di James Agee e Walker Evans (del quale Allison non mantiene la verve politica quanto piuttosto lo sguardo impietoso), possiede senza dubbio una forte carica scioccante. Bone è gioiosamente accolta nell’amore feroce di una famiglia unitissima, matriarcale e cronicamente antisociale, che è descritta con l’affetto che sempre meritano i ribelli senza causa e coloro che il sistema mette prepotentemente alla porta perché non addomesticabili.
Ma al calore di questo nucleo gioiosamente disfunzionale fanno da contraltare le molestie e le violenze inflitte da un patrigno instabile, legato alla madre della protagonista da un amore malato e odioso. Il modo in cui la violenza sessuale s’insinua nel racconto è fantasmatico e magistrale – Allison è spietata nel mostrarcelo come un germe che man mano divora la protagonista riempiendola di odio per sé, per una società che la disprezza e per una madre che non può proteggerla dalle sfuriate oscene dell’uomo che non riesce a lasciare. Un fuoco che, insieme ai nervi del lettore, sempre più tesi, consuma anche l’infanzia di Bone, costretta a diventare in fretta una giovane donna dilacerata.
«Immaginavo che qualcuno mi legasse e mi ficcasse in un covone di fieno per poi dar fuoco alla paglia secca e vecchia», dice lei; «la mia intenzione è sempre stata che alla fine del romanzo il lettore provasse rabbia», dice l’autrice. E La bastarda della Carolina, tenero quanto crudele, non di rado incomprensibile nella sua violenza cieca senza redenzione alcuna, riesce infatti a essere un romanzo che scuote, che aggredisce e tormenta e che non si fa chiudere facilmente. «Le storie aprono porte su stanze buie», scrive Allison nella postfazione, ma questo racconto, nero come i capelli di Bone, elemento che ritorna ossessivamente nel testo, ha il potere di condurci attraverso l’oscurità di una vita al margine verso la catarsi inerente all’atto narrativo per cui nominare le cose vuol dire potersene finalmente riappropriare.