R. F. Kuang / Fantasy (o forse no) e linguistica

R. F. Kuang, Babel, tr. Giovanna Scocchera, Mondadori, pp. 600, euro 24,00 stampa, euro 11,99 epub

“Il colonialismo non è una macchina pensante, non è un corpo dotato di ragione. È la violenza allo stato di natura e non può piegarsi se non davanti a una violenza ancora maggiore” – Frantz Fanon, I dannati della terra

Il tema del romanzo è ben delineato da questa citazione che apre il capitolo 25. E alla parola “colonialismo” potremmo aggiungere “capitalismo”, “patriarcato”, e “consumismo” e la sintesi sarebbe perfetta. Era da tempo che non leggevo un romanzo così militante, così schierato e rivoluzionario. Babel è un testo di seicento pagine che non risulta monumentale solo per la dimensione, ma anche per la ricerca approfondita che l’autrice americana di origini cinesi, R. F. Kuang, fa sul momento storico e sociale dell’epoca in cui si svolgono i fatti, sugli sviluppi dell’era industriale ma soprattutto sulla semantica, le radici e l’origine delle parole in diverse lingue.

È la traduzione il fulcro del romanzo, che insieme alle proprietà dell’argento rendono l’umanità capace di progressi straordinari. Ma quasi tutto l’argento della terra è nelle mani dell’Impero britannico che continua nella sua opera di sfruttamento delle risorse attraverso scambi commerciali che lasciano gli altri paesi sotto la soglia della povertà. La sua straordinaria potenza è costruita sulla commistione di parole in diverse lingue che vengono scritte su le due facce di barre d’argento che le fanno interagire. Per fare questo l’Impero ha bisogno di traduttori, e non esita a “importare” materiale umano straniero per far sì che il suo potere arrivi ad annientare il resto del mondo: raccoglie ragazzi da ogni parte della terra, strappandoli ai paesi di origine e a famiglie indigenti, per istruirli nella lingua inglese e nella traduzione delle loro lingue native così da avere sempre più forza. Non è facile spiegare in poche parole il meccanismo dell’interazione ma l’autrice nel testo lo sintetizza in modo chiaro.

Siamo agli inizi degli anni Trenta dell’Ottocento e il centro di tutto è Oxford, a Babel, una torre di otto piani dove risiede il Royal Institute of Translation, la fucina dove vengono istruiti i ragazzi con le maggiori capacità linguistiche. A degli adolescenti che provengono da fame e miseria non sembra vero di poter frequentare l’Università più prestigiosa del mondo, avere la retta pagata e una rendita che gli garantisce un’esistenza agiata. Provenienti da tutori che li hanno prelevati spesso dalle loro case e li hanno preparati, spesso con metodi crudeli, ad essere ammessi a Oxford, il sogno di poter vivere lavorando con le parole, per creare nuove concatenazioni o trovare nuove radici, li rende orgogliosi di essere al centro di mille attenzioni. Sono persone indispensabili all’Impero perché è la conoscenza delle loro lingue di origine a dare forza all’espansionismo britannico.

Robin Swift è un ragazzo cinese di Canton che il suo tutore, il signor Lovell (uno degli insegnanti di Babel), ha portato con sé dopo che la madre era morta durante un’epidemia di tifo sradicandolo dalle sue origini e dalla sua cultura. Prima di portarlo ad Oxford, Robin subisce una durissima educazione: studio e punizioni implacabili costellano la sua permanenza a casa dell’uomo: deve dimenticare le sue origini, e per questo è stato costretto a scegliersi un nome nuovo, e diventare “inglese”, ma non deve dimenticare la sua lingua. Quando finalmente arriva a Oxford gli si apre davanti agli occhi un mondo nuovo: lo studio delle lingue è il suo sogno e sa che lì potrà avverarlo. Ma Babel non è il paradiso che sembra: sono i suoi insegnanti ad avere in mano le chiavi del potere e per mantenerlo e aumentarlo sono disposti a qualsiasi azione, anche la più efferata. L’incontro con Griffin, un ragazzo con cui il protagonista scoprirà di avere molto a che fare, scappato dall’Università per entrare in una società segreta che cerca di smascherare le malefatte dell’Impero, gli cambia le prospettive. Non sarà facile per lui, perché all’inizio non capisce come altri studenti abbiano abbandonato una vita di agi e riconoscimenti per darsi alla macchia. I compagni di corso di Robin sono tre: Ramy, proveniente dai bassifondi di Calcutta, un indiano spesso additato per il colore della sua pelle, e Victoire e Letty, due ragazze costrette a vestirsi da uomo per non turbare la serenità degli altri studenti. Le discriminazioni, nonostante l’alto grado di cultura dell’ambiente, sono all’ordine del giorno ma i quattro giovani riescono a creare un rapporto di empatia e di solidarietà. Nonostante le lezioni prendano la maggior parte del loro tempo, il restante lo passano insieme a chiacchierare e frequentare i locali della città. Quando Robin decide di entrare a far parte di Hermes, la società segreta di cui fa parte Griffin, non rivela nulla ai suoi compagni per proteggerli oltre a non mettere in pericolo le azioni del gruppo.

Il racconto si svolge tra livelli di narrazione diversi, la trama si snoda veloce e omogenea, a parte un calo nel quarto dei cinque libri che compongono il romanzo, e nella successione dei capitoli è sempre più evidente la crudeltà e la violenza del potere, il suo perseguire l’espansione dell’Impero assoggettando l’intero pianeta, la corsa verso una globalizzazione dove i più forti, quelli che detengono le risorse, hanno la possibilità di un dominio assoluto. Ed è una opportunità che non vogliono mancare usando tutti i metodi, leciti e meno leciti: una violenza senza limiti, la sopraffazione verso le donne e i deboli, l’emarginazione dei diversi, lo sfruttamento indiscriminato delle risorse, la società dei consumi come base dell’economia, l’eliminazione del dissenso, il potere detenuto da una piccola cerchia di individui che governa le sorti del mondo. Un Impero britannico dell’Ottocento che assomiglia tanto all’Impero globale di oggi, nei metodi e negli obbiettivi, eredità che si è sempre trasmessa nel corso dei secoli. In un periodo storico sociale buio come il nostro, sembra davvero arrivato il momento di combattere la crudeltà e la violenza con altrettanta e maggiore determinazione: arrivati a un punto di non ritorno le parole devono lasciare lo spazio alle azioni, anche cruente. Criminalizzare i giovani che si battono contro il cambiamento climatico è uno dei paradigmi di una società che sta bruciando il loro futuro. Uscito nella collana Oscar Fantastica della Mondadori, il libro non è catalogabile in nessun genere: è un romanzo che mescola passato e presente, fantasia e realtà, denuncia e critica sociale. Un testo che paradossalmente ha una attualità incredibile.

Nell’unica recensione del romanzo trovata in rete, si parla di un libro con un punto di vista di parte che non dà spazio a controtesi. Sinceramente sono rimasto allibito: da quando in qua in un romanzo si aprono dibattiti su diversi tesi? Non dovrebbe essere il testo in se stesso a essere fonte di eventuali confronti? E in un momento come quello che stiamo vivendo non è indispensabile schierarsi in modo chiaro e netto contro una restaurazione violenta e cruenta? Io credo di sì.

Una nota va spesa anche per Giovanna Scocchera, che in una nota iniziale spiega come sia arrivata a scegliere un certo tipo di traduzione: con parole che provengono da diverse lingue, con un romanzo che parla di traduzione – uno degli assunti del libro sostiene che tradurre equivale a tradire –, con le tante note disseminate dall’autrice il suo non è stato di certo un lavoro semplice. Il risultato mi sembra davvero notevole.