Un libro terribilmente divertente questa speculazione cinematografica tarantiniana: una sorta di autobiografia attraverso i film che hanno determinato la propria crescita umana e artistica. Ancora più divertente e coinvolgente per chi, come me, ha più o meno l’età del regista statunitense e condivide quindi con lui praticamente la stessa filmografia per la propria iniziazione cinefila giovanile: il glorioso, epico, mitico cinema degli anni ’70. Memorie cui non manca un tocco perfino elegiaco nel rievocare sale o moduli di fruizione e accesso al grande schermo che oggi non esistono più: per lui i grandi movie theaters dell’hinterland losangelino, arthouses, grindhouses o drive-in; per noi lettori italiani, le casalinghe salette parrocchiali di seconda e terza visione e i mille cinemini di periferia, ormai da decenni trasformati in supermercati, garage o complessi residenziali.
Con un linguaggio spiccio e colloquiale, molto spesso sboccato – uno slang perfettamente ricreato nell’ottima traduzione di Alberto Pezzotta – che sembra preso dai dialoghi dei suoi film, Quentin ricorda l’infanzia e l’adolescenza precocemente ossessionate dal cinema e le molteplici visioni anche di film che normalmente i genitori proibivano ai suoi coetanei ma che una situazione familiare non convenzionale e una madre di larghe vedute (Connie, una bella donna separata “all’epoca sembrava un incrocio tra Cher e Barbara Steele”), le sue due coinquiline sexy, Jackie (nera) e Lilian (messicana), e gli innumerevoli fidanzati di tutte e tre concedevano, viziandolo un po’, al ragazzino, perché “Un film non può farti male, Quentin, il telegiornale sì”.
Capitolo per capitolo il teenager di ieri insieme al regista di oggi analizzano con competenza tecnica e critica, stemperata però da soprassalti di stupore infantile, sia capisaldi della cinematografia dell’epoca, con relative star protagoniste – Bullitt di Peter Yates e Getaway! di Sam Peckinpah, e il mito di Steve McQueen; Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry) e Fuga da Alcatraz (Escape from Alcatraz) di Don Siegel, e il carisma di Clint Eastwood; Un tranquillo weekend di paura (Deliverance) di John Boorman, e il fascino macho di Burt Reynolds; Taxi Driver di Martin Scorsese, e il potenziale esplosivo dell’accoppiata Robert De Niro e Harvey Keitel e della sceneggiatura di Paul Schrader (che viene discusso come regista anche per Hardcore con George C. Scott); della carriera di Brian De Palma e in particolare del suo omaggio a Hitchcock (Le due sorelle – Sisters), o di quella di Sylvester Stallone con i suoi controversi Rocky e Taverna Paradiso (Paradise Alley) – sia film meno noti ma ugualmente significativi come Rolling Thunder o Organizzazione crimini (The Outfit) di John Flynn, Il tunnel dell’orrore (The Funhouse) di Tobe Hooper o Daisy Miller di Peter Bogdanovich.
Il gusto che ha forgiato il futuro regista emerge netto: il genere visto non come stentata ripetizione di un modello sempre identico ma come occasione autoriale capace di giocare con lo stereotipo e l’exploitation stravolgendoli ed esaltandoli. La compresenza fra i suoi riferimenti basici di abili artigiani, come Siegel, Stallone, Flynn o Hooper, di fuoriclasse indefinibili come Peckinpah o Boorman, e di sofisticati stilisti, come i Movie Brats dell’allora Nuova Hollywood, Scorsese, De Palma, Schrader, o Bogdanovich; di divi indiscussi, come McQueen, Eastwood, Reynolds, De Niro, o dei non meno istrionici Keitel, Scott e Charles Bronson, ma anche di delicati caratteristi come Barry Brown, morto suicida a ventisette anni, che viene ricordato con affetto come persona sensibile e colta, inserendo nel testo – in sua memoria – un vecchio pezzo giornalistico scritto dall’attore sulla tossicodipendenza di Bela Lugosi, il Dracula forse più classico. E la magmatica cultura filmografica e filmologica di Quentin, non solo come cinefilo prima e uomo di mestiere dopo, ma anche come erudito e studioso, si evince anche dal suo omaggio a Kevin Thomas, critico cinematografico, saggista e recensore sulla stampa statunitense dell’epoca, che ha ugualmente contribuito a formarlo come autore.
Infine anche il ricordo delle persone che, in questo viaggio sentimentale al di là e al di qua dello schermo, hanno fatto di Quentin quello che è. Per esempio Floyd Ray Wilson, un nero senza arte né parte, che visse per un anno e mezzo a casa sua, boyfriend occasionale di Lilian, la migliore amica di sua madre. Il primo adulto con cui può parlare di cinema da pari a pari, che condivide la sua passione per gli action-movies e per la blaxploitation – il cinema per neri fatto da neri, allora in piena fioritura – e per la musica black, il blues e il rythm’n’blues o quasi-black, il rock’n’roll anni ’50: Screamin’ Jay Hawkins e Howlin’ Wolf, Curtis Mayfield e George Thorogood: “Non me ne fregava un cazzo dei Kiss. Non me ne fregava un cazzo degli Aerosmith, dei Black Sabbath o dei Jethro Tull […] Niente Beatles. Niente Jimi Hendrix. Niente Bob Dylan (che sarebbe venuto dopo) […] Elvis e Stevie Wonder. Chuck Berry e Barry White”. E il nero Floyd scrive fallimentari sceneggiature che fa leggere a Quentin: in una c’è Mr. Black, il fantasma di uno schiavo ucciso che torna sulla terra per sterminare i discendenti dei latifondisti bianchi che hanno oppresso lui e i suoi fratelli neri (l’antenato di Candyman?); nell’altra un giovane nero adottato dai proprietari bianchi di un ranch e divenuto cow-boy, che farà giustizia vendicando il fratellastro bianco ucciso da una famiglia rivale di allevatori. Quentin riconosce il suo debito verso Floyd: l’idea di un eroe nero nel Far West sarebbe diventata, decenni dopo, Django Unchained.
Il massimo del divertimento del libro però viene raggiunto quando, unendo le competenze del cinefilo e del cineasta, Quentin realizza davvero l’intenzione espressa dal titolo: Cinema Speculation, speculazione sul cinema, cinema speculativo… Così si immagina come sarebbe stato Taxi Driver se, invece di Scorsese, lo avesse diretto – come avrebbe potuto essere – Brian De Palma, e se il protagonista non fosse stato interpretato da Robert De Niro ma da Jeff Bridges, e il magnaccia che sfrutta la giovanissima Jodie Foster invece del bianco Harvey Keitel fosse stato – secondo le indicazioni originali della sceneggiatura di Schrader, che parafrasava il tema razziale e razzista di Sentieri selvaggi di John Ford – nero, per esempio Max Julien. Se Walter Hill non avesse riscritto, edulcorando il romanzo nerissimo di Jim Thompson in una storia d’amore, la sceneggiatura di Getaway! per Peckinpah, e se invece del bel faccino di Ali MacGraw, la protagonista Carol avesse sfoggiato – come voleva all’inizio il regista – la carrozzeria ben più giunonica di Stella Stevens. Se Un tranquillo weekend di paura l’avesse sceneggiato John Milius invece dell’autore del romanzo da cui il film è tratto, James Dickey, e se il protagonista non fosse stato Burt Reynolds ma Lee Marvin. E così via, a ruota libera, in un florilegio torrenziale di sagaci e salaci speculazioni cinematografiche.