La prima opera di Zora Neale Hurston, etnoantropologa, scrittrice ed esponente della Harlem Renaissance, arriva postuma, a quasi novant’anni dalla sua stesura, ed è un testo incredibile. Nel 1928, l’autrice ha trascorso diversi mesi a intervistare Oule Kossula, rapito a 19 anni in Africa occidentale e trasportato sulla Clotilda, in quello che si ritiene essere stato l’ultimo middle passage clandestino. Negli Stati Uniti la tratta di persone ridotte in schiavitù era stata infatti dichiarata illegale nel 1807, ma molti avevano continuato a lucrare sulla deportazione oceanica utilizzando delle navi più piccole e veloci, capaci di sfuggire ai controlli. Per questo, quando nel 1859 la Clotilda scarica i suoi prigionieri a Mobile, Alabama, il capitano Foster la brucia per farla affondare. Per molti anni la nave stessa è diventata una leggenda, fino al suo ritrovamento nel gennaio 2018. Quasi immediatamente, HarperCollins pubblica la testimonianza di chi aveva passato 70 giorni in mare nel ventre della nave.
Non si conosce la cifra esatta, ma si pensa che più di 15 milioni di persone siano morte nel middle passage. Dei milioni di persone che furono ridotte in schiavitù, le testimonianze dirette si aggirano attorno alla decina e ciascuna di esse è preziosa.
Grazie all’adozione della prima persona il racconto di Kossula ci arriva senza ostacoli né mediazioni. La lingua dell’uomo, quasi novantenne nel momento dell’intervista, ha un ritmo vitale che contrasta con il dolore, la solitudine e la nostalgia senza fondo che vengono costantemente ricordati. È una lingua straordinaria, profondamente espressiva che rende difficile la traduzione. Kossula ricorda la “terra d’Affricky”, ne ripete le storie e le tradizioni che gli appartengono. Racconta la notte in cui i soldati del Dahomey hanno sterminato il suo villaggio, catturando chi sembrava giovane e forte, conducendolo in una marcia forzata a Ouidah. Lì, imprigionato con compagni e amici, è stato rinchiuso nei barracoon, recinti o prigioni costruiti sulla costa del golfo di Guinea. In quel luogo arriva un uomo, Foster, che li ha osservati, palpati, comprati e fatti portare sulla nave per un viaggio in stiva di 70 giorni.
L’eccezionalità di questa testimonianza non sta solo nel fatto di essere completamente diversa dalle narrazioni sulla schiavitù cui siamo abituati – se si pensa alla Ferrovia sotterranea di Colson Whitehead o alla serie TV Underground, che raccontano la lotta per la sopravvivenza nelle piantagioni americane. È un racconto che ruota tutto attorno a quel rapimento e all’impossibilità di tornare a casa: perché quando la schiavitù viene abolita, e Kossula si ritrova libero, senza una casa e senza una valigia, prova con i suoi amici e compagni a lavorare per rientrare nella sua terra natale, non può farlo. I costi per affrontare il viaggio sono insostenibili. Dopo essere state rapite, quelle persone sono bloccate in terra straniera. È questo il dolore insormontabile. È questa la testimonianza raccolta da Hurston e finalmente giunta a noi.
Forse è questo il barracoon che da titolo alla testimonianza, perché, nonostante tutto, fino alla fine della sua vita, Kossula rimane imprigionato in un recinto, quello del vasto continente americano, con lo sguardo fisso verso casa.