Ivano Porpora, L’Argentino, Marsilio, pp. 166, euro 16,00 stampa
C’è davvero ancora bisogno di scrivere (o riscrivere) la storia di Cristo? Le risposte possono essere tante e i motivi non di meno, primo fra tutti: essendo esente da diritti, poiché di pubblico dominio da secoli, why not? Senza troppe pretese però, visto e considerato come sono andate avanti le cose a partire dalla prima volta che è stata raccontata: il figlio di Nostro Signore si sarà pure immolato per cancellare i peccati del mondo, ma i peccatori son rimasti tutti, vivi, vegeti e felicemente riproduttivi. Forse, in un mondo simile, più che scrivere (o riscrivere) la storia di Cristo, bisogna scrivere, mi si passi l’ardito giochino di parole, una cristo di storia.
Ivano Porpora l’ha scritta, una cristo di storia. Dopo il precedente Nudi come siamo stati, che avevamo discusso puntuali qui su Pulp, l’editore Marsilio scommette di nuovo sul talento dell’autore nativo di Viadana, in provincia di Mantova, e lancia nelle librerie L’Argentino. Un romanzo che sa di terra bruciata e sudore, di adolescenza e di quel momento della vita in cui si comprende quanto siano preziosi i ricordi.
Si chiama vecchiaia, quel momento? Chissà. L’Io narrante possiede dell’anziano la sapienza, palesata da una lingua ricca e ben modulata, mentre del giovane lascia affiorare tutto il vigore, la viscerale urgenza del racconto. Fate il mix di questi elementi e otterrete una voce della narrativa italiana destinata a restare – e resistere – a lungo fra gli scaffali, nonché nel cuore di chi ne assapora la potenza. Ma entriamo nelle pagine del libro, o meglio: facciamoci una passeggiata nella strada principale del piccolo paesello della Spagna franchista in cui L’Argentino è ambientato.
È il 6 Agosto 1958 e San Cristóbal de Cuéllar conta centosessantadue abitanti, una statua della Vergine che presto sparirà nel nulla e una misteriosa porta chiusa, oggetto delle maledizioni inflitte da uno scrittore di passaggio eoni fa e mai più da allora spalancata. Quel giorno, José Fernando, detto Nandito, diventerà per sempre la prima persona di San
Cristóbal ad avvistare uno sconosciuto che sta entrando in paese a piedi, l’andatura un po’ ciondolante e l’aspetto male in arnese, nel bel mezzo della strada principale. Non lo vede in faccia, ma avrà ben presto occasione d’instaurare con lui un rapporto particolare, fatto di poche parole, tolta una lunga descrizione del mare, che all’epoca Nandito non aveva ancora visto dal vero e a cui ripenserà molti anni dopo, quando lo guarderà negli occhi, il mare, con accanto la propria moglie.
Lo sconosciuto, che tutti soprannomineranno l’Argentino sebbene l’accento del nostro non tradisca affatto tali origini, sconvolgerà non poco gli equilibri del luogo che per venti giorni lo ospiterà fra la sua gente e fra le sue strade dai nomi altisonanti ed evocativi, che dividono il romanzo tracciandone, di capitolo in capitolo, una specie di mappa. O una nuova Via Crucis. Perché se l’Argentino è il Cristo, il suo acerrimo nemico lo sta attendendo tra i ragazzini del paese sotto le mentite spoglie di Rosario, un personaggio inquietante, la perfetta incarnazione del male: il male adolescente, puro, rabbioso e ribelle.
Ma prima che la sonnolenta San Cristóbal venga scossa da un terremoto di emozioni, e si presti a teatro dell’inevitabile scontro all’ultimo sangue fra Luce e Ombra, incontreremo un fiorilegio di personaggi caratterizzati in maniera adorabile. Vien voglia di volergli bene, a ognuno di loro, partendo da due cugini che comunicano attraverso un piccione viaggiatore, per arrivare al complesso Cienfuegos, il macellaio, che ci si presenta come granitico per poi sgretolarsi davanti a un tragico episodio, un fatto di sangue di cui s’incolperà l’Argentino. Il quale, da par suo, se proprio dev’essere costretto a recitare la parte di Cristo, sarà allora un Cristo che i peccati non li lava, manco per idea. Preferisce commetterli uno ad uno, i peccati, sissignore, liberando gli altri non tanto dai peccati in sé, ma dal desiderio definitivo di realizzarli.
E poi ci sono gli amori di Nandito, certi afrori sessuali che gonfiano o inumidiscono parti del corpo che stai appena iniziando a riconfigurare, quando sei adolescente. E sul finale arriva pure quel certo non so che, alquanto difficile da spiegare in una recensione. Basti dire, giusto per capirci: se una volta letto un libro non te lo senti appiccicato addosso, quel certo non so che, beh: ci resti male. È un po’ come non aver letto un bel niente.
Succede tante volte, per carità. Una in più o una in meno non farebbe mica differenza, certo.
Ma meglio una in meno, stavolta.