Recentemente si è parlato molto e in diversi ambiti dell’ultimo saggio scritto e pubblicato da Carlo Rovelli, ovvero Buchi Bianchi (Adelphi, 2023). Il fisico italiano, che da tempo lavora all’estero (è ordinario di fisica teorica all’Università di Aix-Marseille) ha ormai un nutrito pubblico di lettori fedelissimi che lo seguono con interesse sin dal 2014, anno di pubblicazione del suo primo successo editoriale, quel Sette brevi lezioni di fisica che gli dette notorietà mondiale. Va detto, per amore di precisione, che quel breve volume non è stato il suo battesimo editoriale, e che la sua bibliografia era già nutrita di titoli di grande interesse. Questo in particolare, però, grazie anche a un trasparente richiamo a Richard P. Feynman e ai suoi Sei pezzi facili, riuscì a conquistare anche fette di pubblico solitamente poco avvezze alla divulgazione scientifica, tra cui i lettori Adelphi, che certamente sono preparati, ma tradizionalmente e crocianamente rivolti al mondo della letteratura e della filosofia, piuttosto che a meditazioni matematiche probabilmente oscure ai loro occhi. Dai tempi delle dispute accademiche tra umanisti e fisici però è passata molta acqua sotto i ponti, anche se i social e i media in genere non perdono l’occasione di riproporre dibattimenti che la ricerca si è ampiamente lasciata alle spalle. Bisogna dire però che Rovelli, forse per quella sua istintiva predisposizione a rivolgersi alle masse, piuttosto che alle élite, cerca costantemente di ampliare l’orizzonte possibile dei suoi lettori. Il suo è perciò un continuo arrischiarsi su quel cammino in cresta e sul filo della volgarizzazione, che, va detto, per quel grande talento all’equilibrio che ha, è finora riuscito a condurre in porto brillantemente. È evidente che su questi temi si gioca il senso stesso della sua divulgazione: quanto la complessità dell’oggetto di indagine può essere diradata, così da renderlo accessibile anche a chi non è in possesso dei necessari strumenti matematici? Rovelli si rende perfettamente conto di questa posta in gioco, e in diverse occasioni inserisce nel testo elementi di carattere metodologico, proprio al fine di specificare e di chiarire il suo studio sui limiti della divulgazione.
L’ambito del suo lavoro tra i temi della fisica contemporanea, è uno dei più oscuri, e perciò di difficile collegamento con la nostra realtà fenomenica. Il suo gruppo di studio cerca di costruire modelli matematici, atti a dimostrare i collegamenti tra quella che viene chiamata gravità quantistica a loop e la relatività generale, per dirla davvero in due parole. A partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, il lavoro di Rovelli è in costante confronto con quello di Lee Smolin, utilizzando quella particolare matematica sviluppata da Roger Penrose e nota come teoria delle reti di spin (pp. 67–69). Questa collaborazione ha contribuito a produrre l’attuale formulazione della LQG, e da un punto di vista mediatico ha decentrato l’attenzione delle riviste e dei media mainstream dalla teoria delle stringhe, che nei decenni precedenti sembrava dovesse essere il modello comprensivo delle teorie unificate per eccellenza, riportandola nella condizione di essere una tra le molte teorie possibili. Dato che i dubbi e le perplessità sono – quasi metodicamente – superiori alle certezze, il lavoro di Rovelli e Smolin ci permette di affrontare questa diversa teoria che è la gravità quantistica a loop, così come il pubblico italiano non specialista aveva già potuto in precedenza avvicinarsi alla teoria delle stringhe grazie anche ai (bellissimi) saggi di Brian Green e Leonard Susskind.
Facendo un breve passo indietro, non è indifferente evidenziare come i saggi degli autori cruciali in queste ricerche sono in gran parte stati pubblicati nella prestigiosa collana di saggistica di Einaudi, la collana rossa. All’appello mancano i volumi di Susskind e – appunto – quelli di Rovelli, che sono editi da Adelphi, una casa editrice che in Italia non si può certo definire di ambito scientifico. I dotti mi rinfacceranno subito l’esistenza in Adelphi della Biblioteca Scientifica, di cui conosco ovviamente l’esistenza, ma rispetto alla cui composizione serve fare i dovuti distinguo. La BS nasce nel lontano 1976 con l’idea di pubblicare quella letteratura di ordine scientifico che non avesse trovato una sua collocazione organica tra i testi più ortodossi, e che soprattutto mantenesse quel carattere letterario di cui l’editore si fregia e si ammanta. Difatti il suo titolo di apertura è stato Verso una ecologia della mente, di Gregory Bateson, quasi un manifesto della collana stessa. Perché proprio questo è il compito della letteratura, si potrebbe quasi dire, creare un equilibrio nelle diverse parti del nostro essere: passioni, intelletto, sensi. A quel saggio seminale ne seguirono molti altri (mentre scrivo la collana conta sessantotto titoli) alcuni più ortodossi, altri oggetto di feroci discussioni. Per restare nel tema anche i saggi di Susskind sono stati qui ospitati, oltre a quell’importante saggio sulla LQG (Loop Quantum Gravity) che è il volume di Jim Baggott Quanti di spazio. Tutto ciò per sottolineare il fatto che Rovelli non viene pubblicato nella prestigiosa Biblioteca Scientifica, nonostante abbia tutte le carte in regola per avervi accesso, ma nella molto più economica e proletaria, Piccola Biblioteca. Come mai? Credo vi siano due ordini di motivi da evidenziare. Da un lato quella ricerca della diffusione numerica, prima ancora che qualitativa, di cui Rovelli si fa portavoce, in questa sua titanica impresa di rendere comprensibile l’inspiegabile, e che lo porta anche a scrivere saggi per dieci euro o poco più. Onore al merito: se anche solo una persona ha approfondito e migliorato le sue conoscenze di fisica con la passione che il nostro riesce a trasmettere, vuol dire che ha fatto più lui per la scienza italiana di generazioni di convegni accademici chiusi nelle loro torri d’avorio costruite con i contributi pubblici.
Dall’altro lato invece vi è un tema decisamente più strutturale all’opera dello scrittore, ed è quello della compiutezza. Buchi Bianchi è – in un certo senso – un testo incompiuto, quasi una bozza, un’anticipazione di un lavoro futuro che invece potrebbe essere completo e organico. Addirittura, manca (volutamente) la punteggiatura, e le frasi cominciano con la minuscola, come se riprendesse un pensiero lasciato sospeso altrove, come se non si trattasse mai di un vero punto e a capo. È come se Rovelli si fosse trovato spinto dagli eventi a portare il tema fuori dalla ristrettissima cerchia dei super esperti, ma in una condizione che si è rivelata di almeno parziale imperfezione. Difatti tutto funziona e procede in modo (quasi) lineare finché non appaiono loro, i protagonisti, i buchi bianchi.Qui ci si deve arrendere alla totale alienazione, all’impossibilità della percezione, alla non comunicabilità. Perché Rovelli ha voluto costruire questa trappola per concetti, questo mosaico incompiuto dove l’immaginazione gioca un ruolo insostituibile per chi non possiede i fondamentali matematici? Credo che lui stesso sia stato subissato dalla potenza metaforica del ribaltamento che sta cercando di descrivere, dalle conseguenze che – almeno nella sua convinzione – possono derivare da queste ipotesi. Il passaggio buchi neri/buchi bianchi è in qualche modo qualcosa di più (o di diverso) da una espressione matematica? Questo è il nodo del problema divulgativo. Di fronte ad oggetti che non sono in alcun modo descrivibili tramite metafore, paragoni o equivalenze di tipo percettivo, oggetti che per i fisici come Rovelli sono essenzialmente il frutto di equazioni e calcoli, è possibile pensare a renderli visibili, e – soprattutto – trasmissibili anche a chi non ha praticamente nessuna delle competenze necessarie? La lingua, quanto può in questo contesto? Nei saggi precedenti, L’ordine del tempo e Heligoland, pur avventurandosi pericolosamente negli angusti sentieri a precipizio che il tema richiede, Rovelli cerca tumultuosamente e testardamente nel suo vocabolario la parola adatta, quella comprensibile a chiunque, e viene spontaneo ammirare in lui l’ardore del letterato. In questa ultima fatica, diversamente, forse dubbioso delle sue stesse capacità, Rovelli si appoggia alla consulenza del sommo poeta, e, nella sua discesa agli inferi, nelle profondità del buco nero, lascia spesso a lui, e alle sue ben note parole, il compito di soccorrerlo nella spiegazione di certi passaggi, con l’aiuto della poesia e della metafora, mantenendo per sé solo gli aspetti più ostici. Eppure, così come Dante, dopo essere risalito attraverso Purgatorio e Paradiso, rimane muto dinanzi alla visione di Dio, così Rovelli stesso, in un impietoso paragone, ultimo dei neoplatonici, può descrivere solo come ombre i suoi buchi bianchi, rivelandosi quasi impacciato, afasico, cosciente di parlare di ipotesi, proprio mentre cerca sostanza.
Quando cerca i collegamenti tra il pensiero di Nagarjuna – la visione del vuoto – e il suo legame con ciò che Heisemberg ha intuito, oppure quando insegue le conseguenze dell’entropia nelle dinamiche proprie del tempo e della sua direzione, Rovelli è davvero solo di fronte alle conseguenze e alle implicazioni del suo stesso dire, e la cosa non pare preoccuparlo in alcun modo. In questo ultimo saggio invece, e certamente non per caso, è continuamente alla ricerca di conferme, di confronti e anche di conflitti, che comunque sono legittimanti. Rovelli rimanda costantemente alla comunità scientifica mondiale, “ai miei colleghi”, che – a suo dire – non comprendono, non condividono, non riconoscono, sono restii. Esita: “scrivo e riscrivo queste pagine, composte a strati, rimescolate in continuazione”. Sfrutta in più occasioni il meccanismo della frase potete saltarlo se volete, salvo poi usare quei contesti per i suoi attacchi più radicali. Ogni occasione è buona per ribadire come la scienza procede per errori: a pp. 27, 31, 57, 60, 80, e sicuramente ve ne sono altri. La terza parte del libro, quella in cui, abbandonato momentaneamente Dante, cerca di mostrare al mondo ciò che lui vede, è pura poesia. Il testardo Rovelli affronta il tema (Cosa sono i buchi bianchi) in ogni sua sfaccettatura possibile e non lascia nulla di intentato, ma probabilmente, se non per una sottile patina superficiale, per una sensazione arcana, resta incomprensibile ai più. È un fallimento? Certamente non per lui, e l’affresco che dipinge, in cui collega la memoria, la libertà, Spinoza, i tramonti e gli orizzonti, usa cioè l’intera storia dello scibile umano per spiegarci che cosa c’è lì fuori, andrebbe incorniciata:
“Quanto ci deve turbare scoprire che passato e futuro sono solo fenomeni prospettici? Che la nostra libertà è un fenomeno macroscopico? Che non ha riscontro a livello microscopico? Solo quanto scoprire che al tramonto non è il sole che si tuffa nel mare: non cambia nulla nostra vita. Anzi, scoprire che la logica sottile che orienta i buchi neri è la stessa che orienta la nostra memoria e le nostre scelte ci fa sentire parte dello stesso scorrere globale, dello stesso flusso. Tutta l’informazione nel mondo macroscopico scaturisce dal dissiparsi di un disequilibrio nel passato. L’informazione custodita in ogni memoria viene dall’informazione implicita nel passato disequilibrio. […] La direzione del tempo è questo equilibrarsi delle cose. Questo andare verso l’equilibrio. Un fenomeno accidentale dovuto al particolare stato di cose nel tempo che chiamiamo passato. […] Così è maestoso, lo scorrere cosmico del tempo”.
Con tutto il rispetto, ed è davvero tanto, con tutta la riconoscenza, che non è da meno, cinicamente mi chiedo quanti dei suoi lettori comprendano la magnificenza di ciò che descrive, l’immensità dell’Universo. Eppure, nonostante tutto, chiunque rimane – almeno per un istante – senza parole, davanti alla Sistina. La poesia di Rovelli non ci permette di capire la sua matematica, ma certamente il suo luminoso stupore è davanti ai nostri occhi.