Paolo Zardi, Tutto male finché dura, Feltrinelli, pp. 174, euro 15 stampa, euro 9,99 ebook
Com’è che si dice a Roma? Quanno ce vo’, ce vo’: Paolo Zardi se lo merita proprio, di venire sdoganato in libreria con una distribuzione capillare e un gruppo editoriale alle spalle capace di valorizzarne l’indiscutibile talento. Apprezzatissimo nella misura breve (le sue raccolte di racconti, Antropometria e Il giorno che diventammo umani, sono due piccoli capolavori), è stato finalista al Premio Strega 2015 col romanzo XXI Secolo (Neo Ed.), portando per altro all’attenzione dei media il mondo della piccola editoria e tutto l’impegno profuso nel promuoverne titoli e autori.
Perché è da lì che Zardi proviene, da un sottobosco editoriale che per primo ha creduto in ciò che questo autore aveva da dire – e adesso potranno accorgersene in tanti, con questo sorprendente Tutto male finchè dura. Sorprendente, sì, in quanto diverso dal solito Zardi, uno scrittore in grado di realizzare un racconto in una sola pagina e farti chiudere il libro finché non ti sei ripreso dalla botta pazzesca che quell’unica pagina ti ha sferrato sul grugno. Qui lo ritroviamo a sfoderare una vena a tratti quasi comica, che accompagna il protagonista privo di nome nella sua rocambolesca farsa esistenziale.
Abbiamo a che fare con un truffatore parecchio sfigato, che cambia identità come cambia mutande, finché non compie un passo falso e viene arrestato. Uscito di galera, è un uomo senza più nulla. Ha perso lo studio odontoiatrico abusivo dove cavava denti a una clientela di poveracci, pur non essendo dentista (e, fin qui, vivaddio che l’abbia perso!), ma soprattutto ha smarrito l’affetto delle sue due figlie, Elisa e Lucia, la prima di sedici anni e la seconda quasi di nove. Per non parlare della fiducia di Marta, l’ex moglie, che tuttavia lo riaccoglie in casa, incapace di sbattergli la porta in faccia e sperando, in cuor suo, che possa ricucire una specie di rapporto con le bambine.
Ci riuscirà, il nostro? Insomma. La sua massima ambizione, nel momento in essere, sarebbe in realtà ereditare una grossa somma alla morte del padre, che non vede né sente da anni, anche perché un paio di energumeni che gli stanno alle calcagna gli hanno nel frattempo rammentato un certo debituccio contratto con l’usuraio che li ha sguinzagliati sulle sue tracce. In sintesi, o si procura settantamila euro in pochi giorni, o dovrà rinunciare agli attributi. Non sono di certo le basi migliori per ricompattare l’armonia famigliare.
Il nostro eroe (si fa per dire) sbarca il lunario facendo il picchiatore per conto di un gentleman conosciuto in carcere, lavoretti da poco che gli fruttano altrettanto; però fa presto a rendersi conto che, per quante persone possa malmenare nel corso di un’intera giornata lavorativa (concetto che nella fattispecie non esiste nemmeno), mettere insieme la somma dovuta all’usuraio per salvarsi le cosiddette non è mica una passeggiata di salute. A meno che non capiti il colpo grosso.
Verrebbe voglia in numerosi punti del romanzo di provvedere personalmente alla rimozione dell’apparato riproduttivo del protagonista, tanto è lo squallore del suo pensiero, tanto è subdolo il suo agire. Soltanto l’ironia con cui lo tratteggia Zardi lo esonera dal risultare di un’antipatia senza confini. Eppure è lui il personaggio ideale per rappresentare l’epoca caotica che stiamo attraversando, dove nulla è reale e tutto sembra, se non a portata di mano, almeno a portata di click. È nei vizi privati e nelle ben rare pubbliche virtù della nostra società che la lente d’ingrandimento di Zardi va a soffermarsi, talvolta di striscio, talvolta in maniera più palese, quasi gridata.
Fino a un finale che lascia stupefatti, e increduli, e di nuovo sotto l’effetto di una tremenda botta. Quella botta che solo Zardi sa affibiare. E se riesce a far bene perfino a un protagonista così, che di fatto riscatta totalmente, figuriamoci quanto bene può fare a noi. A noi che leggiamo. A noi che in quella società ci viviamo.
A noi che quella società siamo…