Quando la resistenza è un circo

Haroldo Conti, Mascarò, tr. Marino Magliani, Exòrma, pp. 360, euro 16,50 stampa

A quasi quarant’anni dalla prima pubblicazione italiana torna in libreria l’ultimo romanzo dello scrittore argentino Haroldo Conti (1925-1976) nella nuova e autorevole traduzione di Marino Magliani, già traduttore di un altro romanzo di Conti, Sudeste, pubblicato da Exòrma nel 2018. C’è, in apparenza, un ampio solco a separare Sudeste, l’esordio dell’autore, dai toni più chiaramente realistici, e la “festa mobile” di Mascarò, ultimo libro lasciato da Conti prima di entrare nelle lunghe fila dei desaparecidos massacrati e fatti sparire dal regime di Videla. Il testo di Gabriel García Márquez posto a prefazione del romanzo – originariamente intitolato “La última y mala noticia sobre Haroldo Conti” – non è, dunque, soltanto un’accorata denuncia della fine atroce subita dal romanziere argentino, ma anche la prova indiretta di una comunanza di intenti letterari, nel secondo Novecento latinoamericano, che si può ricondurre soltanto provvisoriamente alla categoria (sempre labile), di “realismo magico” e che, in realtà, ha una portata molto più vasta.

Del resto come misurare, se non sulle grandi distanze, i territori dell’immaginazione coperti dalla narrazione di Mascarò? Le peripezie del Circo dell’Arca non sono soltanto un grande viaggio neo-picaresco – per terra, per mare e nei cieli – ma anche l’affresco di una società radicalmente diversa da quella imposta con la violenza dai militari argentini. Sospettava qualcosa, a questo riguardo – non riuscendo, però, a esporre adeguatamente e coerentemente i suoi timori, come spesso accade ai censori – il burocrate che sancì il bando del romanzo, all’epoca della sua prima pubblicazione, facendo rapporto su un libro in cui non si “usa la terminologia del marxismo”, ma “la simbologia e la stessa costruzione narrativa rimandano senza dubbio all’ideologia del marxismo”.

Quello che il censore crede di vedere in Mascarò è dovuto, in primo luogo, al giudizio del regime sulle posizioni politiche del suo autore: Mascarò non è un romanzo a tesi; è, invece, un romanzo sovversivo e della sovversione, strutturalmente reticente rispetto all’adesione a una singola ideologia. Del resto, in un’intervista del 1969 – riportata da Francesca Lazzarato nella bella recensione apparsa sul manifesto il 30 gennaio 2021 – è stato lo stesso Haroldo Conti a dichiarare, piuttosto esplicitamente, che “l’arte è il regno della libertà pura che non può ricevere imposizioni estranee all’arte stessa”.

Nella sua sovversione, Mascarò non è né un attacco frontale né una prova di martirio: la narrazione procede con leggerezza – a partire dalla prosodia magistralmente movimentata, di natura squisitamente cinematografica, delle prime pagine – con ogni probabilità risultando, in questo modo, ancor più irritante agli occhi del censore. Questa leggerezza non viene abbandonata nemmeno nella seconda parte del romanzo, non più intitolata al “Circo”, ma alla “Guerriglia”: qui emerge con maggior chiarezza la figura di Mascarò, il cazador americano del titolo originale che si è unito al circo per meglio proteggere la propria clandestinità. Sono accenni inquietanti a una realtà storica che inevitabilmente traluce, tra le righe, ma non dà luogo per questo ad alcuna sentenziosità retorica, né ad alcuna forzatura narrativa.

Al lettore italiano di oggi, potrà anzi sembrare, e per lunghe pagine, di essere riportato direttamente all’interno del più noto immaginario felliniano: il circo, la strada, nonché alcuni personaggi, come la procace Maruca/Sonia, sono indizi di un’affiliazione quasi certa, di un autore che, oltretutto, aveva lavorato anche nel mondo del cinema. Tuttavia, si tratta di un immaginario che è forse ancora più sovversivo, o comunque diversamente connotato dal punto di vista politico, rispetto a quello dei film del grande autore riminese: il Circo dell’Arca è una “sovversione continua”, impegnato in funambolismi e peripezie fuori dalle convenzioni e dall’ordinario, che si riflettono anche nell’uso irregolare, ma pirotecnico, della sintassi (così com’è ben percepibile, tra l’altro, nella vibrante traduzione di Marino Magliani). Si aggiunga che uno dei personaggi più presenti e più affascinanti di Mascarò non è tanto l’oscuro latitante omonimo, quanto il Principe Patagón – probabile travestimento letterario (iper-letterario, se si considera il citazionismo letterario cui ricorre questo improbabile principe) di Orélie-Antoine de Tounens, l’avventuriero francese che nel 1860 aveva fondato il regno utopico di Araucanía e Patagonia – e si capirà ancora meglio qual è l’orizzonte politico della sovversione continua messa in scena da Haroldo Conti.