Quando il Passato consuma il Presente. Il sottosuolo vampirico del Southern Gothic

Caccia al sangue del ‘nuovo mondo’

Il diciassette gennaio 1892, Mercy Brown di Exeter Rhode Island morì dopo aver contratto la tubercolosi, all’epoca definita, con termine quasi negromantico, “consunzione”. Questo male si accanì in maniera particolarmente crudele sulla famiglia, tanto che il patriarca, George Brown, si convinse del fatto che una maledizione si era abbattuta sulla sua stirpe. Le conoscenze mediche sulla tisi erano ancora incerte e l’infezione era oggetto di numerose speculazioni, divenendo presto, all’interno della sempre superstiziosa società puritana, un’oscura condanna a morte che sembrava emanare dal mondo delle ombre. Complici la scarsa dimestichezza dei dottori con la batteriologia e lo spettacolo certo inquietante di uomini e donne trasformati progressivamente in fragili fantasmi che macchiavano di sangue le lenzuola dei letti nei quali erano costretti, l’ultima speranza di individui come George Brown era il cedere a una serie di riti sinistri che attingevano ad antiche (e incerte) conoscenze folkloriche, spesso importate dal Vecchio mondo. La serie di decessi fu collegata alla presenza di un non-morto tra i corpi interrati dei familiari, un revenant che di notte tornava a portare la malattia ai cari ancora in vita. Il corpo di Mercy Brown venne riesumato, e gli astanti scoprirono con orrore che non solo la ragazza non mostrava alcun segno apprezzabile di decomposizione, ma che il suo cuore conteneva ancora sangue. Il verdetto fu emesso: Mercy Brown era il non-morto, il veicolo della distruzione della sua stessa famiglia.

L’importanza di questo fatto, all’apparenza simile a molti altri macabri episodi tradizionalmente legati a tempi in cui la superstizione lavorava costantemente nella definizione delle vite della povera gente (due secoli esatti separano Mercy Brown dai processi alle streghe di Salem), è che la ragazza viene considerata il più influente caso di “vampirismo” moderno. Diffusa in tutto il mondo attraverso l’interesse morboso dei giornali, la vicenda fu probabilmente un’influenza determinante nella creazione di Dracula [ ](1897), il romanzo epistolare di Bram Stoker a cui si deve la formalizzazione di molte delle caratteristiche poi associate alla figura del vampiro. I pallidi, raffinati principi ematofagi della notte, istintivamente legati alla decadenza nobiliare europea, avrebbero quindi origini americane – un interessante cambio di prospettiva rispetto allo stereotipo ormai sedimentato nell’immaginario collettivo.

La cultura statunitense mostra in effetti delle dinamiche vampiresche quando si considerano i processi tutt’ora in atto attraverso i quali elementi di origine diversa (ma prettamente eurocentrici, almeno per quel che riguarda il monolito imperante del mondo wasp) vengono assorbiti, metabolizzati e rifigurati per entrare a far parte della massa proteiforme che costituisce lo sconfinato inconscio del Nuovo mondo, il quale diventa a sua volta forza di colonizzazione dell’immaginario mondiale (per dirla con Wim Wenders) in virtù dell’innegabile influenza che gli Stati Uniti hanno avuto nella costruzione ideale del Ventesimo secolo. I vampiri americani alla (ri)conquista dell’Europa, quindi. Il movimento di acquisizione e ritorno è bene esemplificato dal primo romanzo di quella che è sicuramente la serie a tema vampiresco più famosa e influente nata negli Stati Uniti nel 1976, Intervista col vampiro (Longanesi, 2010), volume inaugurale delle fortunate Cronache dei vampiri di Anne Rice [De Robertis\Romei]. Il mondo crepuscolare e decadente dei vampiri di Rice, i cui caratteri erano in gran parte assenti nella formulazione seminale di Stoker, trova non a caso le proprie radici in Louisiana, forse lo stato americano che più di tutti mantiene viva la propria identità europea attraverso i fantasmi concreti e metafisici della dominazione francese. Ma la Louisiana, soprattutto attraverso l’enorme potere simbolico della sua città più nota e importante, New Orleans, è anche il luogo americano più legato all’occulto, al mondo delle ombre e alla magia nera. Indubbiamente, l’apporto più consistente della metropoli al fantastico letterario è da ritrovarsi nella tradizione del Voodoo, d’influenza fondamentale nella definizione di un’altra fortunatissima figura di non-morto: lo zombie. Ma la ricca tradizione folkloristica della città presentava già prima del rinnovato interesse stimolato dal successo dei libri di Rice una sostanziosa raccolta di miti e storie legate ai vampiri.

Da Jacques Saint Germain, affabile gentiluomo francese con l’abitudine di sorseggiare vino misto a sangue umano, ai fratelli John e Wayne Carter, nella cui casa dei malcapitati, opportunamente legati e con i polsi incisi, fungevano da riserve di plasma, non c’è praticamente angolo del quartiere francese che non sia stato anche il palcoscenico di qualche accadimento raccapricciante. Dei curiosi punti di contatto con la storia del “vampiro originale americano” Mercy Brown sono presenti anche attraverso l’incresciosa tendenza dei cadaveri di New Orleans a non restare sottoterra. Come raccontato in Unfathomable City, splendido atlante della città a cura di Rebecca Solnit e Rebecca Snedeker, le peculiarità del terreno paludoso del delta del Mississippi fanno sì che le continue infiltrazioni di acqua riportino in superficie le bare sepolte, problema decisamente acuito dalla frequenza con la quale la città è allagata per via del ciclico passaggio di uragani dal Golfo del Messico. E le bare, indissolubilmente legate alla figura del vampiro, tornano in un’altra delle leggende urbane di New Orleans. Ai tempi in cui la Francia cercava di popolare la colonia, abitata perlopiù da un folto sottobosco dedito ad attività illecite di varia natura, alcune
giovani fanciulle in età da marito, in seguito ribattezzate casket girls (“ragazze delle bare”) per via delle casse nelle quali trasportavano i loro averi, furono inviate dalla madrepatria. La storia narra che, all’arrivo della nave nel porto, questa avesse a bordo solo circa trecento bare dal contenuto assai più inquietante di semplici corsetti, cappelli e ombrelli di seta.

 

Che sia per le condizioni meteorologiche, per le maledizioni di qualche stregone Voodoo o per vampirismo, i vivi e i morti sono destinati a incontrarsi nei vicoli di New Orleans. Esiste addirittura una New Orleans Vampire Association dedicata a fornire supporto alla “sottocultura dei vampiri”]. Non è quindi una sorpresa il fatto che Anne Rice, all’epoca residente in California, abbia scelto di aprire la fortunatissima saga proprio nella sua città natale.

Considerati nel contesto più ampio del Southern gothic, genere tipicamente associato al Sud e notoriamente incentrato sul peso del passato e su problemi di sangue incarnati tanto nella violenza (sociale, razzista, divina) quanto nell’ossessione per la purezza e la genealogia, i vampiri possono essere in un certo senso considerati come una figura-simbolo (benché spuria) di questa tradizione letteraria. Un vampiro è infatti un essere condannato ad ammassare gli eventi di una vita innaturalmente lunga, tragica (e forse anche ironica) incarnazione della famosa affermazione di William Faulkner secondo la quale il passato non è mai morto né davvero passato – come sempre nel dominio del Southern gothic, il passato ritorna immancabilmente a consumare il presente per alimentare la propria azione implacabile. È facile inoltre associare lo stereotipo delle raffinate creature della notte alla pseudo-nobiltà terriera meridionale, che, chiusa in sé stessa in grandiose e decadenti case padronali e consacrata al mantenimento artificioso e fanatico di un codice di valori quasi feudale a fronte dell’avanzata inarrestabile della Storia, “succhia” (neanche troppo figurativamente) il sangue di legioni di schiavi sfruttati e de-umanizzati. Come la razza dei vampiri guarda ai comuni mortali con il disprezzo riservato a esseri inferiori, poco più che semplice materia di sostentamento, così l’aristocrazia terriera del Sud rifiutava alla massa schiavile un pari status di umanità, esercitando su questi un diritto pressoché divino di vita e di morte: in entrambi i casi, un eccellente esempio di esercizio biopolitico spregiudicato (sarebbe certamente interessante leggere l’ambiguo potere vampiresco di donare una non-vita in chiave foucaultiana).

Intervista col vampiro si apre infatti con una classica piantagione della Louisiana di cui è proprietario Louis, l’intervistato del titolo. Insieme a Lestat de Lioncourt, che lo trasforma in vampiro vinto dal desiderio di avere un compagno con cui dividere la solitudine dei secoli, i due sono una trasposizione piuttosto fedele della classe dominante dell’aristocrazia francese dell’epoca. Lestat, più vecchio e spudorato di Louis, si nutre proprio degli schiavi del secondo, aggiungendo allo sfruttamento materiale di questi ultimi, già preda dell’economia di latifondo, la vessazione del predatore nei confronti degli individui situati più in basso nella catena alimentare. Già Karl Marx aveva paragonato il capitalismo a un vampiro che succhia l’anima del lavoro vivo, aprendo idealmente la strada a tutte le successive interpretazioni socio-politiche dell’universo vampiresco, ma nel caso del romanzo di Rice quest’affermazione acquista una solida incarnazione letteraria che è anche un’interessante summa simbolica del sistema economico della piantagione tout court. Gli schiavi di Louis si ribelleranno al loro padrone disumano, ma verranno sterminati dai due vampiri – anche in questo caso, è impossibile non leggere questa rivolta soffocata nel sangue come trasfigurazione della rivolta fallita guidata da Nat Turner, di recente protagonista del film The Birth of a Nation (2016).

Le pagine di Intervista col vampiro dedicate alla piantagione non sono che l’ouverture alla narrazione delle peregrinazioni di Louis e Lestat, tutte iscritte nell’ormai logoro cliché del vampiro malinconico, afflitto più dall’ennui dell’immortalità che dalla quantità di vittime lasciatesi alle spalle. Curiosamente, è sempre a New Orleans che la figura ormai francamente insopportabile (soprattutto dopo prodotti triti, assillanti e mediocri come la saga di Twilight) [Romei] del vampiro colto, decadente e raffinato protagonista delle cronache di Rice viene brillantemente dissacrata. La serie televisiva della AMC Preacher, tratta dal fumetto di culto a opera di Garth Ennis e Steve Dillon, presenta un’ironica evoluzione dell’emaciato principe delle tenebre nel personaggio di Cassidy, vampiro irlandese alcolizzato, tossicodipendente e logorroico. Anch’egli in perenne ricerca di compagni con cui condividere la solitudine della vita eterna, Cassidy è però sboccato e spiritoso, decisamente più amabile dei patiti adolescenti di Stephenie Meyer o dei loschi libertini à la Lestat. Durante le sue scorribande notturne per il Quartiere francese, Cassidy incontra Eccarius, che, con i suoi modi raffinati e l’abbigliamento ottocentesco, è una chiara caricatura dei vampiri di Rice (nello specifico, ricorda fortemente l’Armand impersonato da Antonio Banderas nella riduzione cinematografica del romanzo a opera di Neil Jordan), finendo per restare affascinato da quest’ultimo. Rivelatosi poi creatura assassina e meschina, Eccarius verrà sopraffatto dai suoi ex-discepoli aizzati da Cassidy. La scena, in cui un gruppo di giovani goth apparentemente poco svegli divora letteralmente l’ex-maestro crocefisso a un tavolo, è un capolavoro d’ironia e mitoclastia, e la simbolica “uccisione del padre” da parte dell’universo vampiresco statunitense.

Preacher è, tanto nella sua forma-fumetto che nella traduzione per il piccolo schermo, un’opera fortemente dissacrante nei confronti di un’ampia serie di concrezioni mitiche americane (il puritanesimo, il cowboy, l’idillio di provincia e la cultura redneck tra le altre) e la grottesca dipartita di Eccarius non è che l’ennesima di una lunga serie di provocazioni. Ma la post-postmoderna reincarnazione del vampiro rappresentata da Cassidy e dal suo scanzonato edonismo resta particolarmente interessante per l’analisi del genere in virtù delle numerose anomalie che il personaggio presenta se misurato sugli stereotipi vampireschi. Un vampiro-immigrato conscio del suo status di alieno intersezionale più che un malinconico cosmopolita, a suo agio al bancone di un bar dei bassifondi di New Orleans piuttosto che in un’umida cella sotterranea e vestito come un musicista punk invece che come un languido dandy, Cassidy è una rilettura della tradizionale figura americana del trickster, tipico elemento di rottura di ogni possibile convenzione. Siamo certo di fronte a un caso raro (se non del tutto isolato) in un filone ancora fortemente legato a una serie di convenzioni di successo che evidentemente continuano ad affascinare schiere di appassionati, maniaci dell’occulto, freaks complottisti e aficionados della cultura dark in ogni parte del mondo. Ma se l’America ha apparentemente gettato le basi per la figura del vampiro, l’America (con l’aiuto decisivo del Vecchio continente) sembra anche aver mosso i primi passi nella sua liquidazione. Un approccio irriverente innegabilmente connesso alla forte carica weird della cultura degli Stati Uniti del sud, immortalata dalla nota, ironica affermazione: “qui non nascondiamo l’assurdo in soffitta. Lo portiamo in parata sul portico e gli diamo un cocktail”.