Qualcuno legge ancora Dos Passos?

John Dos Passos (1896 – 1970), un tempo considerato un classico intramontabile, oggi è quasi dimenticato, anche tra gli esperti. Tuttavia, il suo romanzo d’esordio L’iniziazione di un uomo: 1917 offre una potente testimonianza contro la guerra, basata sulla sua esperienza come conducente di ambulanze durante la Prima guerra mondiale. Quest’opera, profondamente pacifista e critica verso l’imperialismo, è ancora attuale per le riflessioni sulla propaganda e sui conflitti globali, meritando una riscoperta nel panorama letterario contemporaneo.

Capita che uno scrittore finisca eclissato. Successe ai più grandi, basti dire che dopo il 1642 Shakespeare sparì dalle scene (i teatri erano stati chiusi dai precursori dei talebani, i puritani inglesi), e quando si ricominciò a recitare sul palcoscenico – nel 1660 – non si mettevano in scena i suoi drammi come li aveva scritti il Bardo, ma pesantemente modificati, tagliati e aggiornati secondo la moda francese del momento. Solo verso la metà dell’Ottocento si tornò al vero Shakespeare, anche se senza battute a sfondo erotico. Per lo Shakespeare senza censure bisogna aspettare il XX secolo.

E se veniamo all’Italia di oggi, si assiste a una generalizzata eclisse di Moravia. Finché era in vita l’autore degli Indifferenti era onnipresente, forse anche invadente; adesso brillano molto di più – per limitarci ai suoi contemporanei – Pasolini, Flaiano, Morante, Manganelli, addirittura lo sventuratissimo Morselli. Le cause di queste disparizioni (mi si consenta questo calco dal francese e accenno a un altro scrittore un po’ dimenticato, Perec) sono diverse, e talvolta tutt’altro che chiare. Viene infatti da chiedersi cosa ha fatto di male John Dos Passos per essere caduto dalla mappa, come dicono i suoi connazionali.

Negli anni Settanta Dos Passos non sarà stato famoso e letto come Hemingway o Kerouac o King, tanto per restare negli Stati Uniti, però i suoi romanzi li faceva circolare il Club degli Editori. Di certo non era un autore di nicchia, riservato a pochi studiosi e appassionati. Negli anni Settanta un brillante scrittore inglese di fantascienza, John Brunner, scrisse romanzi (da rileggere assolutamente oggi) come Tutti a Zanzibar o Il gregge alza la testa, che nell’ambiente dei fantascientisti fecero il botto, come si suol dire, applicando rigorosamente la tecnica delle trame multiple parallele e quella dell’inclusione di materiali eterogenei non letterari (finti articoli di giornale, pubblicità, ecc.), che sono caratteristiche del magnum opus di Dos Passos, la trilogia U.S.A. Negli anni Settanta, ribadisco, Dos Passos era visto come un classico, un evergreen, un intramontabile, e un possibile modello di scrittura (qualcuno ricorda i bestseller di Arthur Hailey, Aeroporto, Ruote, Medicina violenta, Ultime notizie? Era un Dos Passos “versione pop”, e vendeva parecchio).

Le cose sembrano essere cambiate. Parlando di recente con due amici, un bibliotecario e un docente universitario (insomma, addetti ai lavori), mi sono sentito dire qualcosa che potrei sintetizzare con la sconsolata domanda: “Ma chi se lo legge più, Dos Passos?” E questa opinione ha trovato eco anche in una email ricevuta da un poeta e redattore di Pulp Magazine. Non sarà un sondaggio statisticamente attendibile, ma non lo prenderei sottogamba; e comunque guardate sulle pagine culturali delle Testate Prestigiose quanto spesso (o meglio, quanto di rado) compare il nome dell’autore di Manhattan Transfer e del 42° parallelo

Eppure, John Roderigo Dos Passos, nato nel 1896 e defunto nel 1970, avrebbe ancora qualcosa da dirci – specie se si guarda alla primissima fase della sua produzione letteraria. Tradizionalmente si prendeva in considerazione il nostro dal 1925 in poi, quando faceva uscire quella che veniva vista come la sua prima opera matura, Manhattan Transfer. Veniva comodo partire da lì, perché lo stesso anno Fitzgerald pubblicava Il grande Gatsby, esordiva Faulkner, e l’anno dopo arrivava Fiesta di Hemingway – insomma, si poteva dire che era un punto di svolta per la letteratura a stelle e strisce, e si sa che critici e insegnanti adorano i punti di svolta ben definiti. Ma la storia dello scrittore Dos Passos inizia prima, nel 1920, quando fa uscire un romanzo breve intitolato L’iniziazione di un uomo: 1917 (One Man’s Initiation: 1917, trad. it. di Valentina Verona, L’iniziazione di un uomo: 1917, Ginko edizioni), che nel titolo contiene un riferimento ben preciso a un ben preciso momento, punto di svolta della storia dell’uomo Dos Passos. Quello è l’anno in cui gli Stati Uniti entrano nella Prima guerra mondiale, che già aveva sterminato milioni di soldati e anche parecchi civili; l’anno in cui Dos Passos varca l’Atlantico e si ritrova sul fronte occidentale, nei pressi di Verdun, dove c’era stata la più apocalittica macelleria della Grande guerra; ed è proprio questa sua esperienza che fornisce la materia prima del romanzo.

Si può dire che la vicenda di Martin Howe, il protagonista, un giovanotto americano che va volontariamente a guidare le ambulanze che portano i feriti dalle trincee alle retrovie, è strutturata come l’avvicinamento alla prima linea, alla strage industrializzata, alla devastazione pura, infine alla morte. È un tracciato caratteristico della narrativa della Prima guerra mondiale: lo si ritrova in Vent’anni di Corrado Alvaro come nella prima parte di Viaggio al termine della notte di Céline, e in tanti altri romanzi e memoriali. L’incedere del racconto è lineare, e non ci sono trame parallele come nelle opere considerate mature di Dos Passos; però c’è un procedere a sbalzi improvvisi che già attesta la volontà di innovare le strategie narrative. Lo scrittore snocciola all’interno degli undici capitoli una serie di brevi episodi che si susseguono senza neanche uno spazio bianco, nessuno di quei connettori tipo “qualche giorno dopo”, “più tardi”, “all’indomani”, niente di tutto ciò; si va a capo e sono trascorse ore, giorni, settimane, non si sa, con stacchi bruschi che all’inizio disorientano.

Per quanto Dos Passos non abbia combattuto, come altri scrittori della Grande guerra, da Blaise Cendrars a Emilio Lussu, il trasporto dei feriti e le lunghe attese nelle postazioni avanzate di pronto soccorso gli hanno consentito di vedere i devastanti effetti della guerra sui corpi vivi (spesso ancora per poco) dei soldati. E ha conosciuto le angoscianti, tormentose attese impotenti sotto gli interminabili bombardamenti di artiglieria del fronte, correndo gli stessi rischi, fisici e mentali, dei soldati di fanteria rintanati come topi nelle trincee – ha conosciuto la paura che lentamente corrode l’anima, ritratta così vividamente nelle poesie di Wilfred Owen e Siegfried Sassoon, e nell’impressionante romanzo (ahinoi non tradotto) Return of the Brute di Liam O’Flaherty.

Proprio quest’esperienza fa maturare in Dos Passos una posizione nettamente pacifista, antimilitarista e socialista. Proprio alla guida della sua ambulanza su strade dissestate e caotiche, proprio caricando e scaricando barelle su cui posava carne martoriata, proprio assistendo alla devastazione della natura stessa, osservando le desolate terre bruciate da esplosivi e gas, Dos Passos giunge alla conclusione ben sintetizzata nelle parole che mette in bocca a un soldato francese: “Questa guerra che ha sfasciato il nostro piccolo mondo europeo… mi sembra solo una gigantesca battaglia combattuta per il saccheggio del mondo da parte dei pirati che si sono ingrassati fino alla pazzia col lavoro della loro stessa gente, col lavoro di milioni in Africa, in India, in America, quelli finiti direttamente o indirettamente sotto il giogo della folle avidità della razza bianca”. In altri termini, è la catastrofe finale dell’imperialismo capitalista, e questa constatazione è particolarmente dolorosa per un giovane americano idealista come Martin, e come il suo autore.

Il 1917 è un anno fatidico, infatti, anche per un altro motivo: con l’entrata in guerra, gli Stati Uniti intervengono per la prima volta nella politica del vecchio continente, dal quale si erano tenuti alla larga ai sensi della dottrina Monroe, ammantando il loro non interventismo con ragioni idealistiche, come se volessero lasciare la vecchia e corrotta Europa a scannarsi per il potere e la ricchezza. Ma nel 1917 tutto cambia anche oltreoceano, e le considerazioni di Martin suonano alquanto attuali: “Non dimenticherò mai le bandiere, le minacciose bandiere esultanti lungo tutte le strade prima che andassimo alla guerra, il graduale scoprirsi dei denti, il graduale addormentarsi dell’umanità e della ragione della gente con le frasi, le frasi… L’America, come voi sapete, è governata dalla stampa. E la stampa chi la governa? Sapremo mai quali forze oscure hanno comprato e comprato finché non fossimo pronti a entrare in guerra bendati e imbavagliati?”

Oggi potremmo dire i media, anche in versione social, ma la musica è sempre quella. All’inizio del XX secolo il magnate della stampa William Randolph Hearst convinse gli americani a invadere Cuba e strapparla alla Spagna; oggi la disinformazione russa sta favorendo i neofascisti di tutta Europa e legittimando l’invasione dell’Ucraina; e non parliamo di cosa succede a Gaza e zone collegate, e di come la faccenda viene riformulata dalla stampa italiana. Parliamo di guerra, parliamo di propaganda, parliamo di vite spezzate, di terre devastate – ma allora, parliamo del 1917 o del 2025?

Insomma, quest’opera d’esordio di Dos Passos mi sembra tutt’altro che degna di oblio, e lo stesso discorso varrebbe anche per la successiva, il romanzo I tre soldati, uscito negli Stati Uniti nel 1921 e da noi solo nel lontano 1967, e da allora fuori stampa. Anche l’opera seconda affronta l’esperienza di guerra, ma in questo caso abbiamo tre personaggi e trame parallele, e l’orizzonte si fa più ampio (si tocca anche il tema del razzismo, ai danni di un italoamericano). Ma sarebbe il caso di rileggere L’iniziazione di un uomo: 1917, anche e soprattutto per motivi eminentemente letterari: a ben vedere, si tratta in ultima analisi di un memoriale mascherato, assai prossimo a quell’autofiction che va tanto di moda – la differenza essendo che Dos Passos ha dato al suo alter ego un altro nome. Solo che, a differenza di certi narratori del momento, lui ha qualcosa di grosso da raccontare; di grosso e rumoroso e micidiale. Un qualcosa che forse è troppo grande e minaccioso per i cantori del particulare domestico (nuova versione dell’italico “tengo famiglia”), per gli scrittori degli sgabuzzini. Ebbene, la lettura del dimenticato Dos Passos potrebbe essere una valida terapia per tanti autori prigionieri del proprio ombelico: che hanno da perdere solo i loro tinelli.