Ci dispiace per Borges, ma nella sua storia universale dell’infamia manca un nome. Voglio farlo io, quel nome: Giuseppina Da Ponte, maestra elementare a San Benedetto Po tra il 1917 e il 1918. Questa signorina (all’epoca aveva diciannove anni, forse l’unica attenuante), mia collega anche se preferirei di no, denunciò 14 alunni della sua quinta classe maschile per disfattismo. Quinta elementare: parliamo di bambini tra i 10 e gli 11 anni. Denunciati da questa “maestra” (le virgolette sono d’obbligo) per quel che avevano scritto in un tema la cui traccia era Perché l’Italia possa vincere è necessario resistere fino all’ultimo. I ragazzini osarono dire che la guerra era brutta, che la dovevano fare i ricchi che ci ingrassavano e non i poveri che morivano come mosche. La “maestra” li denunciò e tre degli scolari finirono in casa di correzione per tre giorni (gli altri, grazie a Dio, assolti: qualche magistrato che ragionava c’era anche allora).
(Da insegnante, considero la Da Ponte il modello perfetto di tutto ciò che non devo essere, per nessun motivo.)
Questa storia, e molte altre, le troverete nel caleidoscopico libro di Franzina, e mai aggettivo fu più meritato. La ricerca dello storico si dirama infatti su piste assai diverse, unificate dal concetto chiave di “fronte interno”. Franzina non è storico militare, come Rochat, Del Boca o Pozzato; nella sua vasta bibliografia s’è occupato di molti argomenti (specialmente dell’emigrazione italiana), ma non di guerra combattuta al fronte. Però questo è in ogni caso un validissimo e sostanziosissimo contributo sulla guerra combattuta nelle retrovie: sulla partecipazione dei civili alla guerra.
Nella prima sezione del volume, la prima serie di “vetrini” del caleidoscopio, Franzina si occupa della donne negli anni della Grande guerra. Non furono combattenti, ovviamente; eppure ebbero un ruolo significativo sul fronte interno, come dimostra l’episodio della “maestra” Da Ponte, che ho pescato da una delle ricche note a piè di pagina del capitolo dedicato alle insegnanti elementari. Non furono tutte canaglie come la suddetta; ce ne furono altre che nella loro attività didattica scelsero di non essere spie dell’apparato repressivo poliziesco e predicatrici della strage patriottica. Tra di esse spicca quella Lina Merlin che poi divenne senatrice socialista (non Craxiana, beninteso) e diede il nome alla legge che chiuse le case di tolleranza in Italia.
Ma in questa prima parte si esplorano altre sfaccettature del ruolo giocato dalle donne durante la guerra, dalle prostitute alle Madrine di guerra, dagli epistolari femminili a come venivano usate le figure femminili nella propaganda di guerra; e tra questi “vetrini” due mi piace segnalare, due magistrali letture di Vent’anni di Corrado Alvaro (grande classico dimenticato della Prima guerra mondiale) e della produzione bellica dell’inarrestabile Filippo Tommaso Marinetti, futurista ed erotomane.
Viene poi una sezione dedicata alle canzoni del ’15-’18, che esamina i testi di quei canti e le modalità con le quali essi vennero prodotti (spesso riprendendo melodie già esistenti e fornendole di testi nuovi che parlavano del conflitto); questo è un filone di ricerca che Franzina non ha perseguito solamente da storico, ma anche impegnandosi in prima persona come cantante con un gruppo che esegue queste antiche canzoni popolari (rimando al CD incluso nel volume).
La terza sezione invece dettaglia la partecipazione degli emigrati italiani alla grande guerra: non furono affatto pochi quelli che tornarono in patria dalle Americhe a combattere. Assieme a questi volontari, ci sono le storie degli emigrati in altri paesi europei che si trovavano o dall’altra parte della barricata rispetto all’Italia, o comunque trasformati tutti o in parte in teatri di guerra (per esempio il Belgio). Le due guerre mondiali furono anche caratterizzati da massicci spostamenti di persone, famiglie, comunità, etnie (si parla sempre degli ebrei durante la seconda, e giustamente, ma quello è un caso speciale di una categoria di fenomeni ben più ampia); e non può non venire in mente la Storia di Tönle di Mario Rigoni Stern. Ci fu anche risentimento tra gli italiani più poveri (che pochi non erano) quando a causa della guerra si bloccarono i canali emigratori che costituivano la principale prospettiva di miglioramento delle proprie condizioni se non di pura e semplice sopravvivenza.
Nella quarta parte si tratta di un particolare fronte interno, quello argentino. Nel paese latinoamericano la presenza italiana era, come ben si sa, fortissima; Franzina illustra come quella comunità emigrata visse la guerra, tra cronaca, propaganda, retorica politica e vissuto quotidiano, mostrando quale fosse l’impatto del conflitto su un paese ben distante geograficamente, e politicamente neutrale. Leggendo queste pagine ci si rende ben conto di quanto sostanziale sia quell’aggettivo “mondiale” che associamo alla guerra del ’15-’18. E non si può non riflettere sul fatto che queste dinamiche di un conflitto vissuto a distanza, oggi che le guerre più che altro le vediamo in televisione o sul web, vale la pena di analizzarle non solo per ricostruire il passato, ma per meglio capire il presente.
Infine c’è una sezione dedicata alle corrispondenze popolari tra le Americhe e l’Italia in guerra. Ancora nel 1970, nel suo fondamentale Mito della grande guerra, Mario Isnenghi contrapponeva le molteplici scritture sull’esperienza dei combattenti, dai diari ai memoriali ai romanzi, alla saggistica e alla stampa, monopolizzate dalla borghesia che sapeva leggere e scrivere, al silenzio delle masse contadine (gli operai erano allora troppo pochi e preziosi per mandarli a morire in trincea), che non disponevano degli strumenti per articolare una loro storia perché poco o nulla alfabetizzate. Ma lo studio delle scritture private, tra lettere e memoriali affidati a quaderni mai pubblicati e poi lasciati ai discendenti, e altri documenti pazientemente rinvenuti conservati e studiati negli ultimi cinquant’anni, hanno permesso di ascoltare anche l’altra campana, e cioè quelle classi subalterne che andavano a morire negli assalti disperati e pressoché suicidi ordinati da Cadorna, nelle varie “spallate” sull’Isonzo e altrove che si susseguirono con insistenza maniacale prima di Caporetto. Questa “letteratura privata” esplora Franzina, specie nella sua forma epistolare, senza trascurare di trattare la censura che operava sulle lettere dei soldati, che talvolta giungeva al sequestro puro e semplice delle missive, poi conservate negli archivi pubblici di Stato e oggi a disposizione degli storici. E queste missive mai recapitate “documentano in prevalenza la delusione e lo sconcerto assieme al disgusto e alla condanna delle modalità e delle forme del conflitto, della vita di trincea e così via senza risultare necessariamente o sempre collegate a una concreta opzione antimilitarista”. Insomma, queste “lettere morte” – che fanno un po’ pensare al Bartleby melvilliano – danno voce a chi non c’è più, in una strana e commovente forma di posta transtorica.
Riepilogando: in questi cinque anni di centenario della prima guerra mondiale s’è scritto molto, e non sempre aggiungendo gran ché di valido a quel che già era stato pubblicato sull’argomento. Ma contributi come questo Caleidoscopio della gran guerra, per ricchezza di materiali e lucidità della trattazione, lasceranno sicuramente il segno, e non solo nell’ambito specialistico. Si parla tanto di memoria, con tutto un corredo di giornate, case, istituzioni a essa dedicate, ma la memoria storica non può essere monopolizzata da un singolo evento, per quanto tragico e importante; ampliare la nostra memoria nazionale, anche a fatti e figure restati finora ai margini, è un atto doveroso e – si spera – che contrasti le amnesie e le post-memorie fasulle e disoneste degli ultimi anni.