Putin e la Russia di Yurii Colombo

Domande e sollecitazioni a partire dal nuovo libro di Jurii Colombo La Russia dopo Putin (Castelvecchi editore). La storiografia politica può dare ragione dello Stato russo, del governo russo, delle istituzioni russe ma è ancora uno strumento valido per leggere l’altra Russia, quella degli oppressi?

Non si può capire la Russia con la mente,
Non può essere misurata con il metro comune: ha una natura molto speciale
nella Russia si può solo credere.

Sergej Tjutčev

Leggendo della guerra in Ucraina, devo vedermela ultimamente e sempre più spesso con la brutta sensazione che alla fine non mi resta nulla in mano, neanche il classico pugnetto di mosche. Con La Russia dopo Putin (pp. 144, Castelvecchi, euro 16,50) di Yurii Colombo, mi è accaduta la stessa cosa. Eppure al libro non manca nulla, a partire dalla sincerità della scrittura. Sì, l’Autore è dentro le cose che scrive, capisci che ti sta parlando della sua Russia. Da disamorato però, ché la guerra di Putin gli ha aperto gli occhi su “un Paese che da tanto tempo non è più quello che ho conosciuto, o avevo pensato di conoscere e di amare”[1]. Ma in questo caso disamore non significa disincanto o indifferenza. Se così fosse, l’”anima russa” [2] – la stessa di cui parla Grossman a proposito di Lenin?[3] – avrebbe smesso di ammaliarlo già dai tempi di El’cin.  Ma il Nostro non appartiene alla genia dei comunisti pentiti. Non possiamo più credere alla Russia? Bene, facciamo ogni sforzo per capirla con la mente. È il motivo per cui la Russia di Putin è descritta sine ira et studio, con cognizione di causa per l’appunto. Perché, allora, il mio disappunto? Cos’è che non va in questo libro, la cui lettura nonostante tutto consiglio a quanti, a sinistra, concordano invece con i versi del poeta Tjutčev, posti in esergo alle Conclusioni del libro?

Per la sua disamina Colombo si è ispirato all’assunto leniniano «analisi concreta della situazione concreta», che nel suo caso suona: parlo di questa guerra restando coi piedi per terra, dicendo pane al pane e vino al vino senza fingimenti di sorta, senza quel pourparler in auge nel salotto televisivo borghese o nel dibattito tra “marxisti” dove è di moda “impiccarsi alle parole o alle citazioni dei classici”[4]. A scanso di equivoci, è il riferimento esplicito all’opuscolo di Lenin Il fallimento della seconda Internazionale a farci capire il valore assegnato all’aforisma: un’indicazione di metodo per combattere ieri l’appello di Kautsky alla collaborazione di classe, all’alleanza di una parte degli operai con la borghesia contro la massa del proletariato (Lenin); oggi, per stare dalla parte della resistenza ucraina contro la Russia di Putin (Colombo). Purché non si dimentichi che l’aforisma ha sempre avuto un valore squisitamente politico e infatti quando Lenin lo formula attorno al ’98, aveva in mente il Partito ancora da costruire[5]. Che ogni sua singola mossa nello scacchiere della lotta di classe fosse connessa all’ “analisi concreta delle condizioni e degli interessi delle diverse classi”[6]. Questa e solo questa era la sua ratio. Colombo non si discosta da questa indicazione e infatti nel contesto determinato della guerra in corso almeno in apparenza non perde di vista “chi siano gli oppressi, chi siano gli oppressori e soprattutto quali siano i motivi, spesso complessi, per cui si combatte una guerra”[7].

Una storia politica, dunque, quella di Colombo. Dello Stato russo, del governo russo, delle istituzioni russe al momento attuale, ma anche una storia politica concentrata sulle azioni e sul pensiero dell’uomo Putin che, una volta paragonato a Pietro il Grande e a Stalin, si guadagna per ciò stesso – potenza dell’analogia – una sua aura. I limiti di un simile approccio sono noti e d’altra parte è la stessa contingenza bellica a evidenziarli. A me pare che Colombo se ne renda conto aprendo ad esempio la stessa storia politica russa a nuove domande e cercando le risposte giuste non solo nella modalità di gestione del potere da parte della consorteria putiniana ma nell’altra Russia, quella degli oppressi.

Personalmente – però – avrei preferito che le cercasse invece nella Russia degli idioti – nel senso dell’etimo greco che designa chi vive nel proprio particolare perché escluso da tutto, a partire dal lavoro e da una paga decenti, ostaggio di politiche liberiste che gli mordono il culo e alla mercé ieri della pandemia oggi della guerra. Preferisco l’idiota all’oppresso. L’oppresso nella tradizione della sinistra è sempre una vittima che solo una salda coscienza di classe può riscattare e redimere. Se oggi se ne continua a parlare, è solamente grazie alla forza rammemorante della memoria storica che impedisce “la comprensione delle vere leve della dinamica sociale”, svolgendo “attualmente un simile ruolo «ritardante»”[8]. Perché anche la Russia negli ultimi decenni è stata sconvolta dallo tsunami neoliberista. Del seguito dei cambiamenti avvenuti negli assetti produttivi e organizzativi del suo sistema economico troppo poco ci dice il libro, soprattutto nulla sappiamo di come una ipotetica nuova forza lavoro sia andata configurandosi. Di una cosa Colombo si dice certo: che la lotta di classe operaia nella Russia di Putin è bell’e sepolta e che dell’antagonismo storico tra lavoratori salariati e capitalisti non c’è più traccia e che questo fatto “ha portato in grembo non solo una riduzione dell’innovazione tecnologica e un deterioramento terrificante del dibattito culturale ma anche il frutto amaro del nazionalismo e del populismo”[9]. Tutto merito di Putin? Secondo l’approccio della storiografia politica parrebbe di sì il che spiegherebbe perché Colombo non ha pensato di ficcare il naso nelle ristrutturazioni aziendali da parte delle holding occidentali seguite al crollo dell’Urss. La classe operaia fordista russa, nata solo due decenni prima con la Fiat a Togliattigrad, è in quel frangente che è stata scompaginata e vinta. Come nel resto del mondo capitalistico. I tempi sono quelli. Ma tanti nel momento attuale della guerra, sono gli indizi – dalle proteste femministe, all’esodo dei renitenti alla leva, agli attentati ai presidi militari – che ci fanno pensare e sperare che la partita con la sua gente Putin non sia riuscito a chiuderla, che non l’ha chiusa. Un tempo avevamo dalla nostra bell’e pronta una storiografia materialista centrata sul concetto di composizione di classe. Bisogna dire rassicurante perché ci garantiva che il soggetto antagonista avrebbe sempre occupato la scena, “che sempre [sarebbe rinato] modificato fra le macerie della storia dello sviluppo”[10]. Ma oggi la scena è vuota. Dove si sia cacciato, nessuno lo sa. Neppure metterci sulle tracce della sua composizione tecnica torna utile. Un tempo funzionava, ora non più. E allora? Accettare il fatto che la primarietà stessa dell’azione di classe sia diventata un’opzione? È così che stanno veramente le cose? Non mi arrendo e vado a tentoni.

Bauman: “la classe degli operai industriali nacque nel corso della resistenza dei produttori contro il nuovo sistema di potere; fu questa una lotta per il controllo del corpo e dell’anima del produttore e non per la divisione del plusvalore; ancor meno per il diritto di gestire il surplus”[11]. Siamo agli albori del nuovo mondo industriale e infatti il corpo e l’anima i cimatori del West Riding se li sono giocati in fabbrica. Tutti operai qualificati e privilegiati, ci ricorda Thompson[12], tutti contro le macchine che avrebbero provveduto a succhiare la loro anima, pardon la loro professionalità, e contro il tempo di lavoro che avrebbe asciugato il loro corpo. Con la decostruzione del lavoro industriale siamo entrati nel mondo del capitalismo cognitivo e per qualcuno il quadro di partenza si sarebbe addirittura rovesciato. Se all’inizio della nostra storia erano le macchine come capitale fisso ad appropriarsi del lavoro vivo[13], oggi che questa storia può dirsi conclusa, è il lavoro vivo, “in antagonismo con l’impresa che si muove per il profitto”, a volersi appropriare del capitale fisso[14].

Thompson chiama «opaco» il mondo operaio del luddismo, talmente opaco, dice, che era quasi impossibile penetrarvi[15].  Come penetrare oggi nel mondo pure opaco del lavoratore cognitivo?

Deleuze: “Allo stato di quello che stiamo cercando non è questo il punto. Colpisce che si dimentichi che la logica delle qualità sensibili è una formula già troppo teorica. Si trascura qualcosa che è il “puro vissuto”. Forse si tratta del vissuto del bambino, del vissuto del primitivo, del vissuto dello schizofrenico. Ma il vissuto non vuol dire le qualità sensibili, vuol dire “l’intensivo”. Sento che… “Sento che” vuol dire che qualcosa sta succedendo dentro di me, che vivo in intensità, e l’intensità non è la stessa cosa delle qualità sensibili, anzi, è del tutto diversa”[16].

Lazarus: “1. La politica è dell’ordine del soggettivo, e precisamente dell’ordine dei fenomeni di coscienza. 2. I fenomeni di coscienza sono un rapporto del reale. I fenomeni di coscienza prendono proposito dal reale”[17].

Forse la premio Nobel Svetlana Aleksievič pensava a Deleuze e Lazarus quando ha cominciato ad ascoltare la voce dei reduci russi dall’Afganistan e i contadini, gli operai, gli studenti, gli intellettuali russi dopo l’implosione dell’Urss[18].

Allora, La Russia dopo Putin? Un pamphlet politico comunque da leggere.

Note

[1] Y. Colombo, La Russia dopo Putin, Castelvecchi Editore, Roma 2022, p. 136.

[2] Ivi p. 135.

[3] V. Grossman, Tutto scorre…, Adelphi Edizioni, Milano 2008, § 22. Di ben altro tenore La mia Russia di D. S. Lichacëv. Per dire che l’«anima russa» può essere declinata a sinistra come a destra.

[4] La Russia dopo Putin, cit., p. 104.

[5] Sul tema A. Negri, La fabbrica della strategia. 33 lezioni su Lenin, Collettivo Editoriale Libri Rossi, Padova 1977, pp. 15-24.

[6] V. I. Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia in Opere complete III, Editori Riuniti, Roma 1956, p. 9.

[7]  La Russia dopo Putin, cit., p. 104.

[8] Z. Bauman, Memorie di classe, Einaudi editore, Torino 1987, p. 37.

[9] La Russia dopo Putin, cit., p. 23.

[10] A. Negri, Sul metodo della critica storica in Macchina tempo, Feltrinelli Editore, Milano 1982, p. 88.

[11] Memorie di classe, cit. p. 25.

[12] E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra II, Il Saggiatore, Milano 1969, p. 77.

[13] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, II, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1970, p. 399.

[14] T. Negri, Appropriazione di capitale fisso: una metafora? in Euronomade, Mar. 3, 2017. Sul tema anche G. Griziotti, Neurocapitalismo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2016.

[15] Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra II, cit., p. 52.

[16] G. Deleuze e F. Guattari, Macchine desideranti, ombre corte, Verona 2012, p. 45.

[17] S. Lazarus, Si può pensare la politica in interiorità? in A. Badiou, s. Lazarus, La politica è pensabile?, Franco Angeli, Milano 1987, p. 116.

[18] S. Aleksievič, Ragazzi di zinco, edizioni e/o, Roma 2003; Tempo di seconda mano, Bompiani, Milano 2018.