Come scrive il fraterno amico Anton Giulio Mancino (Il Gotico Maggiore, CineCriticaWeb, 6 maggio 2020), “Pupi Avati con Il signor Diavolo, libro e film, ha creato qualcosa che ha saldato l’horror all’Italia: … l’elemento di congiunzione è la Storia, quella italiana. In una mail privata dell’8 novembre 2019, Avati sottolinea i contenuti politico-sociali che lo contestualizzano non solo logisticamente, ma anche temporalmente in un paese REALE. Credo che la forza di un nuovo approccio a questo genere che io definisco nel mio caso Gotico Maggiore (per i suoi aspetti sacrali) possa risultare proprio questa: liberare il genere da quel non-luogo/non-tempo per condurlo in contesti storico sociali fortemente riconoscibili e verosimili. È evidente che così facendo la quantità di inquietudine che produci risulta maggiore e si trasmette con maggiore efficacia nello spettatore”. Nella fattispecie, nel caso del dittico “diabolico”, il contesto spazio-temporale è il Veneto rurale del 1953.
A Pupi, che su tanto approccio ha insistito da tempi non sospetti (al cinema da ricordare almeno La casa dalle finestre che ridono e Zeder, mentre sul fronte letterario appaiono esemplari Il ragazzo in soffitta e La casa delle signore buie), va riconosciuta una coerenza più che ammirevole se pensiamo che il Gotico (Maggiore e/o Padano) lo si respira persino nelle larghe pieghe di una vicenda intimistica e commovente come quella narrata in Una sconfinata giovinezza.
A maggior ragione il discorso si accentua in L’archivio del Diavolo che tecnicamente si presenta come un sequel de Il signor Diavolo, giocato però su diversi piani di fruizione come se Pupi abbia inteso, appunto, “giocare” con il lettore tramite una ragnatela di rimandi (deliziosi per il sottoscritto) che vanno dagli inserimenti “ipnagogici” ai montaggi borgesiani del Libro nel Libro, dalla ghost story alle numerose schede biografiche “inventate” dei tanti personaggi, protagonisti e “coristi”. Senza dimenticare il racconto di indagine (ci sta un delitto che sembra un suicidio) e la metafisica demoniaca che fa sì che la parola “diavolo” sia, in ambedue i titoli, espressa con la maiuscola, Diavolo. Perché Lui è una “funzione”, una dimensione, una metafora (forse, anche).
Ovviamente, per chi mi conosce, i libri non si raccontano, soprattutto quelli genuinamente misteriosi come questo. Il perno geografico ruota ancora attorno a Lio Piccolo, minuscolo paese del Polesine, nella cui chiesa – sotto, in una catacomba… – era scomparso nell’anno precedente, il ’52, il funzionario ministeriale Furio Momenté, forse “tolto di mezzo” a causa delle sue scomode indagini a proposito di un giovane, reo di avere ucciso un coetaneo nella convinzione che si trattasse del Diavolo in persona. La sublime esitazione alla Roger Caillois, quella responsabile dell’effetto fantastico, entra in ballo quando Momenté riappare – si fa per dire – nei sotterranei dell’archivio del ministero, impegnato in chissà quali lavori, e nel contempo come presunto cadavere nella cripta della chiesa di Lio Piccolo. Fosse solo questo a rendere l’intreccio enigmatico e turbinoso… Abbiamo la rivalità, a dir poco viscerale, tra Don Stefano Nascetti e il questore Carlo Saintjust, la rievocazione degli ultimi giorni di vita del poeta e romanziere russo Nikolai Gogol’, la tafofobia alla Edgar Allan Poe, il Male con la Emme maiuscola che pare dilagare come in un contagio invisibile. Il tutto immerso in una palude di corruzione strisciante in cui nessuno è innocente e tutti sono complici di collettivi peccati non proprio veniali. Come accadeva nei grandi noir chandleriani, anche se il paragone non lice.
Dove para il romanzo va per forza scoperto da chi legge, ma ci limitiamo a segnalare come hanno già fatto in molti, che all’orizzonte si prospetta una graditissima trilogia del Diavolo. A questo proposito il “narratore” Avati ha dichiarato che un terzo capitolo per parte sua è più che auspicabile perché, come ne Il Signor Diavolo, ci sono ancora tanti misteri da dipanare e una bella corte di personaggi enigmatici, in ombra, da sviscerare come “quel prete senza vocazione, costretto a rifugiarsi nella parrocchia in cui è rimasto sepolto Furio Momentè (mentre il fantasma di quest’ultimo infesta l’area bassa ministeriale senza che nessuno quasi se accorga, efficace immagine di una burocrazia giusto spettrale [parentesi mia…]). L’archivio del Diavolo è anche un ritratto dell’Italia degli anni Cinquanta: un Paese spaccato in due tra comunisti e democristiani, in cui l’idea del Male era molto presente assieme al senso della religiosità legato alla cultura contadina. È il mondo in cui sono nato – prosegue Avati – che mi ha formato e da cui non ho mai preso le distanze, a differenza di altri. Ma ha anche l’ambizione di essere un libro esoterico, arcano, che si sofferma in molte occasioni sulle allucinazioni ipnagogiche, quelle immagini che ti raggiungono subito prima di addormentarti. Vedi dei luoghi che non conosci, non capisci da dove provengono, eppure sono lì. A fine Ottocento, due psichiatri americani le hanno trattate in un saggio affascinante. Ho scritto il libro nella suggestione di queste immagini che spesso vengono condivise da varie persone senza che fra loro ci sia alcun contatto”. Infatti… Chi sogna Che Cosa è forse l’estremo enigma che pone il libro. Ma Chi sogna? Il Diavolo probabilmente, risponderebbe Robert Bresson.