Valerio Valentini, Gli 80 di Camporammaglia, Laterza, 2018, pp. 141, euro 15,00 stampa euro 8,99 epub
Oscillante tra memoir e narrazione corale, l’esordio letterario di Valerio Valentini non è quel che sembra, ovvero un libro sul terremoto del 6 aprile 2009 in Abruzzo. O meglio, non si tratta soltanto di un libro che ripercorre quegli avvenimenti cercando di delinearne la portata storica. Com’è stato sottolineato in altre recensioni, Gli 80 di Camporammaglia, già vincitore del Premio Campiello 2018 per l’opera prima, ha al suo al centro piuttosto il dipanarsi di una mutazione antropologica che precede il terremoto, per poi rendersi definitivamente manifesta tra le macerie create dal sisma.
Si tratta della scomparsa della civiltà paesana, non più e non solo contadina, di Camporammaglia, probabile trasfigurazione letteraria del paese aquilano di Collemare di Sassa, dov’è cresciuto l’autore. Ed è proprio su questo sgretolamento che fa leva la narrazione, non tanto per ricordare Camporammaglia con le parole dell’elegia, quanto per mostrare le trasformazioni sociali in atto in tutta la loro complessità esistenziale. Obiettivo pienamente riuscito, questo, anche grazie al genere ibrido adottato da Valentini e all’impasto linguistico, che nelle sue diverse declinazioni, tra dialetto e italiano, risulta sempre molto controllato.
Sembrano lontani, dunque, i tempi della vivacità stilistica di un testo come Libera nos a Malo di Meneghello, che per altri versi è simile a quello di Valentini per tematica e pastiche linguistico. Non che questo sia necessariamente un difetto; a conferire, anzi, un particolare nitore alla pagina di Valentini è una scrittura al tempo stesso partecipe e analitica, che non fa sconti a nessuno. La matrice è forse da ricercarsi nei migliori esempi della scrittura giornalistica e per il lit-web (Valentini è stato redattore di una delle esperienze più interessanti, in questo senso, 404 File Not Found) più che nel canone letterario italiano, spesso portatore, per derivazione gergale, di inutili sofisticazioni e barocchismi.
Il terremoto resta quasi sempre a margine della narrazione, configurandosi innanzitutto come luogo del trauma: è la causa immediata, e per certi versi superficiale, dello sconvolgimento delle vite degli ottanta camporammagliesi, ma è anche la ferita che non si può rimarginare, né con l’elaborazione individuale del lutto, né con i mezzi inefficaci della ricostruzione materiale. La si mostra per sottrazione, senza coprirla di velleità retoriche, evitate, del resto, anche nelle parti in cui si indugia su un possibile percorso di formazione del narratore.
Anche qui, a margine del percorso di crescita individuale, restano zone buie e inquietanti, che il testo ha il merito di indicare, senza poi avventurarsi nella loro esplorazione per darne, infine, un’interpretazione univoca e artificiosamente decisiva. Sono le zone d’ombra che fiancheggiano ancora la strada verso Camporammaglia, ma che fanno capolino anche a ritroso, guardando verso la società italiana nostra contemporanea.