“Sometimes”
di Sheenagh Pugh
Sōmetĭmes thīngs dŏn’t gō, ăfter āll,
frŏm bād tŏ wōrse. Sŏme yēars, mŭscădēl
fācĕs dŏwn frōst; grĕen thrīves; the crōps dŏn’t fāil,
sōmetĭmes ă mān ăims hīgh, ănd āll gŏes wēll.
A people sometimes will step back from war;
elect an honest man, decide they care
enough, that they can’t leave some stranger poor.
Some men become what they were born for.
Sometimes our best efforts do not go
amiss, sometimes we do as we meant to.
The sun will sometimes melt a field of sorrow
that seemed hard frozen; may it happen for you.
A volte le cose non vanno, dopotutto,
di male in peggio. Qualche anno l’uva
resiste al gelo; il verde cresce; i raccolti non mancano,
a volte uno punta alto e tutto va bene.
Un popolo a volte arretra davanti alla guerra;
elegge un uomo onesto; decide di aver cura,
di non lasciare che qualcuno resti povero.
Alcuni diventano quello per cui erano nati.
A volte i nostri migliori sforzi non vanno
a vuoto; qualche volta riusciamo a fare quello a cui miriamo.
Il sole a volte scioglierà un campo di dolore
che sembrava ghiacciato, duro; possa questo succedere a te.
[traduzione di Willer Montefusco]
“La odio così tanto!”, dice l’autrice di questa poesia. Per molte ragioni. Perché viene spesso citata, nonostante l’autrice raccomandi di non usarla – è dedicata a un amico che lotta contro la dipendenza dalla cocaina, non destinata alla pubblicazione. Perchè comunque prega di non menzionare il suo nome, ma nessuno le presta ascolto. Perché molti la leggono in modo sbagliato, in senso troppo banalmente ottimistico. Perché è scritta in un linguaggio piatto e semplice, che non riflette lo stile di molte altre sue poesie, in cui “l’uso del linguaggio è semplicemente molto più interessante e immaginativo”.
In realtà, pur nella sua apparente semplicità e comprensibilità, la poesia non sembra poi così piatta.
È composta di tre quartine, i versi seguono uno schema di alternanza irregolare di versi con quasi-rima (consonanza) e rima alternante nella prima (1. all / 2.muscadel / 3.fail / 4.well), omogenea nella seconda (5. war / 6.care / 7.poor / 8.for), assonanza alternante nella terza (9. go /10. to /11. sorrow / 12.you). Anche il ritmo è piuttosto regolare, con alternanza di alternanza di quattro/cinque piedi, abbastanza conforme al ritmo classico della lingua inglese
Il discorso parte con un’affermazione generale (1. things), in linea con l’avverbio (1.sometimes), in riferimento a un modo di dire comune – le cose vanno di male in peggio. Mano a mano poi si specifica.
L’indefinito qualche / a volte, qualche volta (some / sometimes) chiaramente domina e svolge ruolo centrale e strutturante. Si ripete, tre volte in ogni strofa, quasi a restringere il dominio della ineluttabilità delle leggi della natura e del mondo e moltiplicare invece le volte in cui l’improbabile accada. Aiuta un po’ la legge dei grandi numeri: se lanci una moneta, lanciare più volte non aumenta la probabilità che esca testa, la probabilità resta sempre la stessa; ma, almeno, più volte si lancia, più la frequenza relativa dell’evento favorevole tende ad avvicinarsi alla probabilità teorica. Più si ripete “qualche volta” e, forse, più sembra che si trasformi in “spesso”.
Poi, il tono impersonale delle metafore naturali della prima strofa cede il passo al mondo umano. Compare un uomo (4.a man), poi diventa plurale (5.a people; 8.Some men), ma sempre in terza persona, fino alla fusione nel noi inclusivo (9.our; 10.we). Il mondo naturale è umanizzato mediante i nostri (efforts) in un campo di dolore (field of sorrow).
Il gioco di alternanza tra negazione e affermazione, in cui la litote (1.don’t go, after all, / from bad to worse; 3.the crops don’t fail; 7.they can’t leave; 9.efforts do not go amiss) tende a sottolineare l’incertezza dell’evento favorevole. Ha ragione l’autrice: non è il caso di lasciarsi andare a una aspettativa troppo ottimistica.
Ma anche a non abbandonare del tutto la prospettiva più favorevole. I tempi verbali lavorano in questa visuale: presente / futuro, il futuro introduce la possibilità nel gelo che ricompare alla fine (12.frozen), ma mentre prima il gelo (3.frost) era legato al presente e al procedere quasi uniforme e ineluttabile della natura, ora il ghiaccio è legato al futuro del suo dissolvimento, alla quasi certezza dello scioglimento. La natura può ammettere qualche eccezione: forse proprio nel tuo caso.
Il campo di dolore (11.field of sorrow) della terza strofa rinvia al campo sottinteso nei raccolti (3.crops) della prima, dove allude alla fecondità, produttività della vita che il dolore invece, nella terza, blocca, congela, uccide. Ma che forse sarà destinato a essere vinto.
Confessa la stessa autrice, che il campo di dolore (field of sorrow) del penultimo verso doveva essere un campo di neve (field of snow). L’’’errore” neve / dolore (snow / sorrow) è dovuto a un semplice lapsus calami. Ne vien fuori la paronomasia, accostamento di parole fonicamente simili ma con significato diverso. Voleva scrivere snow – riferimento alla neve-cocaina dell’amico a cui è dedicata la poesia – ma poi esce l’altra, lascia perdere e rimane sorrow. Crede nel “lasciare che la tastiera di tanto in tanto prenda parte al processo creativo”. Il grande linguista Roman Jakobson (nel suo Aspetti linguistici della traduzione) non la pensava tanto diversamente: “la paronomasia, regna nell’arte poetica.” La rima ne è la realizzazione canonica. La lingua poetica – e anche, in misura minore, la lingua in generale – gioca sul livello dei suoni mediante il principio di similarità / dissimilarità, che ne amplifica e moltiplica i significati.
E questo è anche un classico esempio di come l’”intenzione reale” dell’autore – ricerca obbligatoria di certe analisi di poesie -, non sia dopotutto essenziale. Certo, può aggiungere qualche indicazione sul contesto della sua produzione, ma poi la poesia procede, produce per conto suo, produce nonostante e senza l’autore. Ma sempre nell’incontro col lettore.
Tutta la composizione così converge verso te / tu (you), la parola finale. Chi? Può essere sia il dedicatario della poesia – l’amico cocainomane -, sia chi legge adesso, sia il lettore in generale. Ricorda l’effetto di Las Meninas di Velazquez. Il quadro si rivolge allo spettatore in generale, a te, osservatore attuale, e a un personaggio nello specchio dentro il quadro, in cui appare un terzo spettatore che è il soggetto che il pittore sta ritraendo al momento della pittura. Si sovrappongono tre livelli spaziali e temporali. A chi si rivolge? Al singolo/particolare/generale, e in tempi diversi: al momento della composizione del quadro, al momento attuale di chi osserva, al momento atemporale dell’osservatore potenziale. Così – usando le parole di Mandelstam – fa la poesia per il lettore: il “mio misterioso, il mio distante amico”, al quale capiterà di trovare “il messaggio nella bottiglia” che il poeta ha lasciato in mare.
Con la specificazione che queste dopotutto sono parole, per canti che, secondo un altro poeta, Johon Berryman, “non intendono essere compresi, capisci / Vogliono solo atterrire e consolare.” E infatti Sheenagh Pugh accetta che la poesia sia utilizzata solo “for some charitable purposes”, insomma, se può essere di aiuto a qualcuno.
È questa – o solo questa – la forza performativa della lingua poetica? Ce lo raccontano da sempre. Chissà. Forse.
Sheenagh Pugh
È nata nel 1950 a Birmingham. Ha pubblicato nove raccolte di poesia e di traduzioni dal tedesco, francese e greco antico e ha ricevuto diversi premi in Inghilterra. Ha insegnato all’Università di Bristol e di Glamorgan. Vive nelle Isole Shetland.