In altri decenni, dagli anni ’70 in poi, avevamo il rock elettrico e la poesia di Patricia Lee Smith: Patti, Musa americana della costa Est. Visionaria amante di Rimbaud, spregiudicata religiosa, Santa Romana Chiesa e Pasolini in testa. Era voce febbrile che usciva dalle radio libere dell’epoca, e, per chi viaggiava, dai piccoli palchi off dei reading d’oltreoceano. Erano tempi impeccabili, si affittavano per pochi soldi carriere stellari e carinamente oppiacee da trasferire repentine nelle nostre case mediterranee. Stavamo lì rinchiusi, quasi sempre in cerca di sballi nostrani, in stile Festival di poesia di Castelporziano. Eravamo cresciuti davanti al jukebox all’idrogeno, nutriti da Allen Ginsberg e Nanda Pivano. Avevamo intravisto Jack Kerouac, intervistato del tutto sbronzo alla RAI di Bernabei (e dicevano che fosse una pessima TV, razza di idioti).
Poi, tra riflussi e sbandate economiche di cui nemmeno i testi biblici avevano osato scrivere, il secolo ha chiuso i battenti, molti sono stati gli scomparsi nei campi Elisi e nel sottosuolo infernale. La morfologia dei decenni è variata, ogni protocollo ha preteso e avuto compilatori di diversa specie, l’accelerazione mutante ha sfoggiato una potenza inaudita. E ora i superstiti, ammesso che siano ancora “persone umane”, dispongono di device adatti all’uso e consumo quotidiano di funzioni digitali canore e visive. Sappiamo bene di cosa si tratta.
Inutile stare qui a romperci e a insistere sull’esposizione pensosa e pedante, striminzita per ovvie ragioni, degli anni 2000. Kate Tempest (alias Kate Esther Calvert) è dentro il tempo storico: classe ’85, nata nel distretto londinese di Brockley, creatura ibrida per eccellenza in veste di ragazza della porta accanto, ben distante dall’immagine fashionable in vigore nel corso attuale. Poetessa, performer, rapper capace di arrivare sudata e tremante alla fine di un’esibizione accompagnata dalla sua “band” elettronicamente minimalista. Ed efficace.
Basta guardare fino in fondo il video BBC (performance al Rivoli Ballroom di Londra) che riassume proprio Let Them Eat Chaos, una lucida e disperatamente shakesperiana esposizione di un poema ora pubblicato nella nostra lingua, e che ha visto la luce discografica nel 2016. L’audacia firmata da Tempest fa a pugni, letteralmente, con la visione londinese (e per estensione, metropolitana in generale) di territori devastati dal crollo dei sistemi, di creature che non hanno più un soldo da spendere in vita. Una vita che non sia soltanto il disperarsi per agguantare un lavoro prima che “il mare si alzi” e inghiotta ogni cosa.
Appaiono nelle sue opere personaggi che si aggirano fra le rovine, emarginati anche dai propri simili mentre intorno si scatena la tormenta fredda di un futuro asmatico e disamorato. Lei canta l’oscurità che racchiude le ultime generazioni mentre cercano un senso da donare ai propri figli, ammesso che ve ne siano e che sopravvivano. Lo fa con una passione, a tratti emozionante, cui non basta la semplice lettura del libro, né la pur comprensiva e immaginosa traduzione italiana. L’hip hop di Carnaby Street non ha niente a che fare con la nostra lingua, ecco perché l’edizione dovrebbe essere accompagnata da un DVD che espanda la potenza fluida generata da voce e suoni di un linguaggio che non fa sconti. E che in Inghilterra ha saputo farsi acclamare ovunque: su giornali e riviste, in rete e nei club.
Sarà bene pensare (che soprattutto lo pensino gli autori di certi stupidi libri di versi nostrani) che a nemmeno trent’anni questa ragazza è stata premiata con il Ted Hughes Award per il poema Brand New Ancients e che la ferrea Poetry Society l’ha selezionata per la decennale Next Generation Poets. Infine occorre precisare che il primo romanzo di Tempest, Le buone intenzioni, non per caso è stato tradotto da Simona Vinci e pubblicato quest’anno da Frassinelli. Anche questo è il segno di come si possa sperimentare il successo di una scrittura che viaggia in ogni campo oggi conosciuto.
(N.d.R. Kate Tempest va apprezzata dal vivo; potete farlo qui.)