Oggi scriviamo per i morti pensando ai vivi, oggi è difficile leggere gli errori che ci hanno portato a una delle guerre più devastanti degli ultimi anni, senza dimenticare che ogni guerra lo è, anche contasse un solo caduto. La storia è gremita di falsità fatte passare per vere, riguardo ai conflitti del Novecento in ogni continente, e lo sappiamo bene (dovremmo saperlo) noi italiani, e lo sanno USA, Francia, Inghilterra, Germania e Russia. Ma poeti, scrittori, viaggiatori, fotografi, di frodi e furti e azioni nefande ne hanno scritto e raccontato. Un grande poeta come Paul Celan, scrivendo le proprie poesie in tedesco, combattè tutta la vita contro la lingua degli assassini. Che era la lingua di chi gli uccise i genitori nei campi di concentramento.
Bisogna essere grati a Francesca Mannocchi, che ha riportato questa storia in un breve ma densissimo e irrinunciabile articolo apparso su Review di aprile. Poiché soprattutto i poeti hanno a che fare con la fragilità della lingua, ne assicurano una verità indiscutibile e frontale, non dovremmo dimenticare che in ogni “viaggio”, casalingo o stradale, in borsa occorre la presenza dei libri di coloro che testimoniano.
Nel volume Ucraina, pubblicato a piena pagina con il giallo–blu di quello Stato, il supporto alla campagna UNHCR in aiuto alla popolazione ucraina è espresso con chiarezza: il contenuto ci porta dove la classicità è esondante, fra autori che hanno scritto in ucraino e in russo, nati in quella regione il cui nome significa “luogo di confine”, filo diretto con quanto oggi sta avvenendo e con quanto è già stato in un passato recente o remoto. E dunque vi appaiono Nikolaj Gogol’, Isaak Babel’, Taras Ševčenko, Ivan Franko, in una selva di fiabe, novelle, poesie e poemetti che chiedono una lettura articolata, felice e sottile. Per molti lettori, una scoperta. Per chi desidera impegnarsi ancora con la letteratura dell’Est europeo, certamente occasione di letizia e rimembranza resuscitate in tempi non più avvezzi a letture (per lo più) incorrotte.
Dalle Fiabe ucraine ai Racconti di Odessa e alle Veglie alla masseria di Dikan’ka si viaggia in territori e fra genti che narrano di misfatti, promesse, profughi e benestanti, cose fantastiche in cui furori e frastuono non mancano. E quanti sono di lì, e quanti vi si avviano per vedere e testimoniare, porteranno con sé brani tratti da questo volume, ben registrati sul lettore di ebook (il formato cartaceo è un po’ complicato da tenere in borsa), proveranno sentimenti di familiarità parlando con la gente affamata, ferita, spaventata nei sottoscala delle case, nei sotterranei di Mariupol’, Charkiv, Dnipro. Città e paesi all’interno dei quali i nostri migliori reporter si inoltrano dentro il suono mortale delle bombe ma sempre rivolgendosi al “latte nutriente della lingua madre” (Celan e Mannocchi). Quando ci si avvicina alla condensa del male, provando la prigione, sembra che un secolo non sia passato dalle distruzioni del Novecento, e dal lungo elenco bellico che ci conduce a questo mortale 2022.
Il mondo prosegue incurante degli avvertimenti, dalla guerra dei cieli biblici alla guerra sulla terra nulla sembra contrastare l’insensatezza vista con tutti i mezzi a nostra disposizione. Né l’abbondanza di lingue né l’iconografia immensa degli strumenti tecnologici, con tutto il loro carico di disvelamento, possono nulla contro la maniacale ingegnosità bellica. Ma questo libro fa la sua parte nell’atto di unirci al vissuto di un popolo, testimonianza d’appoggio a chi sul campo oggi testimonia quanto accade in quel vasto territorio, altrimenti detto “confine”, su cui si è appuntato lo sguardo feroce di Putin.
Sarà opportuno, fra le altre cose, rileggere il saggio di Milan Kundera Un occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale, uscito su Le Débat nel 1983 e pubblicato in questi giorni da Adelphi, in cui, fra l’altro, si legge: “E la poesia, la musica, l’architettura, la filosofia? Anch’esse hanno perso la capacità di forgiare l’unità europea, di costituirne il fondamento. Per l’umanità europea è un mutamento non meno importante della decolonizzazione dell’Africa”. Kundera si chiedeva quale fosse il destino delle piccole nazioni dell’Europa centrale in mezzo ai dilemmi che già dilagavano in Europa e preannunciando quelli che sarebbero venuti dopo la globalizzazione. E che oggi, tragicamente, abbiamo sotto gli occhi.