Ugo Rubeo, ordinario di Lingua e Letteratura angloamericana alla Sapienza di Roma, è probabilmente il maggiore esperto italiano di Edgar Allan Poe. Questo suo ultimo libro si pone come una vera e propria summa sul grande bostoniano, compendiandone la vita, analizzandone l’opera e, soprattutto, sfatando tutta una serie di facilonerie e luoghi comuni sbocciati intorno alla sua figura mitizzata e troppo spesso fraintesa.
Partiamo dal titolo che già presenta Poe e tutta la sua opera come “metafora delle aspirazioni umane” – come spiega Rubeo in una delle ultime pagine del suo bel testo – “una libertà dei sentimenti sistematicamente repressa da un bieco esercizio del potere”: Poe è “un genio perennemente in bilico lungo il crinale che separa l’esaltazione intellettuale dalla prostrazione causata dalle imposizioni più viete”. Un maestro nell’arte della trasgressione quindi e del paradosso, nel segno del superamento dei limiti della logica binaria: dagli esordi entro il canone romantico di Tamerlano o di Al AAraf agli approdi metafisici del neoplatonismo di Eureka, dal “raziocinio” di Auguste Dupin al delirio di Roderick Usher, tra la precisione scientifica del metodo (con quasi puntuali riferimenti alla Critica del giudizio di Kant) – quell’esattezza rilevata da Italo Calvino, suo grande estimatore, nelle Lezioni americane – e la monomania dell’imp of the perverse.
Particolarmente interessanti le pagine che ritrovano lo spirito di questa ambivalenza anche nei confronti dell’assetto politico e sociale dell’America a lui contemporanea. Guardando oltre la superficie appare un Poe che non corrisponde affatto agli stereotipi del sudista razzista e conservatore, antidemocratico e antimoderno, come di solito è stato rappresentato con eccessiva – e spesso interessata – approssimazione. Il sarcasmo sotteso alla “svolta americana” degli anni ’40, in cui Poe improvvisamente comincia ad ambientare i suoi testi non più in Europa o in luoghi esotici che non ha mai visto, ma nella sua America, che proprio in quegli anni consolida posizioni militariste, espansioniste e nazionaliste prima con l’Indian Removal Act e poi con la Guerra al Messico e la teoria del Manifest Destiny, ne denuncia la motivazione critica.
Ed esplicitamente in The Man That Was Used Up, Poe irride alla figura dell’eroe vincitore dei barbari indiani che, smembrato in battaglia, deve ogni mattina essere “rimontato” dal fedele servo nero Pompey. La metafora del rapporto servo-padrone con la popolazione di colore è lampante: senza lo sfruttamento degli schiavi neri l’élite bianca egemone cadrebbe a pezzi. La figura del nero ha sempre il ruolo del supervisore e del tutore nei suoi racconti americani, così il Jupiter di The Gold-Bug, che ha perfino licenza da parte della famiglia di fustigare “Massa Will” Legrand in caso di necessità, o il Pompey (di nuovo: qui Poe torna a ironizzare sul vezzo piccolo borghese dei possidenti sudisti di dare nomi magniloquenti ai propri schiavi) di A Predicament, senza la cui altezza e forza la Signora Psyche Zenobia, che viene letteralmente presa sulle spalle dal nero, sarebbe impedita e inadeguata.
Come mette giustamente in evidenza Rubeo: “La sostanziale ambiguità di questa conclusione lascia aperta l’ipotesi che oggetto della satira di Poe non sia soltanto il militarismo e il razzismo inveterato dell’apparato egemone, ma anche l’acquiescenza psicologica dei neri liberi e, per estensione, dell’intera componente afroamericana, in un’ottica in cui ciò che in ultima analisi viene stigmatizzato è il perverso rapporto di reciproca dipendenza esistente tra le due razze, il quale di fatto creerebbe per entrambe una situazione di schiavitù psicologica nei confronti dell’altra”. L’effettiva messa in scena del ribaltamento dei rapporti di forza tra bianchi egemoni e neri subalterni però, pur allusa più volte in vari racconti e nell’unico romanzo, resta reticente o contraddittoria come per altro in tutti i suoi contemporanei, basti ricordare il Benito Cereno di Herman Melville.
Analogamente vanno lette in dettaglio e interpretate tutte le allusioni critiche verso l’aridità morale di uno stato democratico votato a una politica di genocidio: in The Oblong Box, per esempio, l’innocenza è un cadavere in decomposizione – quello della bella e virtuosa Mrs. Wyatt – e la nave che lo trasporta si chiama Independence e naufragherà proprio il 4 luglio al largo di Cape Hatteras (nome di una tribù indiana sterminata ed estinta); in A Tale of The Ragged Mountains, il mesmerismo e la metempsicosi non pongono a caso un parallelo fra le vittime del colonialismo esterno inglese, i cittadini indiani del Bengala, e quelle del colonialismo interno americano, le tribù dei nativi; in Some Words With a Mummy poi, le 13 province egizie ribelli che cercavano la libertà e sono finite sotto il dominio di un tiranno peggiore del faraone, un tiranno il cui nome è Mob – moltitudine, massa – non rappresentano affatto, come semplicisticamente hanno interpretato molti, l’attestazione di convinzioni reazionarie e antidemocratiche, ma più sottilmente la denuncia delle manipolazioni politiche attraverso cui un governo federale dispotico, atteggiandosi a democrazia costituzionale, vellica gli istinti più bassi della massa rumoreggiante – oggi la chiameremmo demagogia e populismo: di nuovo viene ellitticamente messa in discussione la superiorità razziale anglosassone e l’ideologia nazionale americana. Una posizione, chiarisce Rubeo, molto vicina a quella dell’Alexis de Tocqueville di De la démocratie en Amérique.
Trascuro volutamente le dettagliate analisi dei racconti più famosi, il piacere della cui lettura lascio a chi vorrà affrontare il volume, per accennare invece ai racconti meno noti di Poe, quei racconti satirici e umoristici, quella dark comedy, quella hoax/beffa, in cui la vis polemica dell’autore si esercita in modo più sovversivo e provocatorio verso l’attualità a lui contemporanea: che il suo oggetto sia l’aborrito Ralph Waldo Emerson e la sua comunità trascendentalista, come in The System of Dr. Tarr and Professor Fether; la fascinazione popolare per la tecnologia e le macchine volanti, come in The Balloon Hoax o in Hans Phaall–A Tale; o che si osi giungere fino al sovvertimento globale delle gerarchie e allo sbaragliamento dello statu quo come nel più estremo dei suoi capolavori in cui hoax e racconto dell’orrore trovano la loro sintesi perfetta: quella rivincita rivoluzionaria del freak (categoria che include gli schiavi neri) sul potere dispotico che è Hop-Frog.
Altro testo spesso ingiustamente sottostimato, la cui centralità all’interno dell’opera di Poe Rubeo mette risolutamente in evidenza, è l’unico suo lavoro lungo, il Gordon Pym. Romanzo marinaresco d’avventura e d’iniziazione, relazione geografica e fantastica figlia tanto delle Narratives del capitano Benjamin Morrell o dell’esploratore antartico J.N. Reynolds quanto della Rime of the Ancient Mariner di Coleridge, il Gordon Pym trascende ogni genere e ogni canone ponendosi inafferrabilmente, data la sua “natura sfuggente e polimorfa” – così precisa Rubeo – come un romanzo senza fine, naturalmente inviso e incomprensibile ai contemporanei perché anacronistico, non solo compendio del passato – gotico, romanticismo, estetica del sublime – ma prefigurazione del futuro – psicanalisi, fantascienza, modernismo – “Pym, dunque, come modello di un’umanità – postmoderna – prossima alla disintegrazione”.
Da segnalare anche l’interessante e dettagliata appendice sulle traduzioni italiane dei testi di Poe, dalle prime derivazioni ottocentesche dalle versioni francesi baudelairiane-mallarmeiane, come quella del Maineri del 1869, alle prime vere traduzioni dall’originale come quella de Il corvo di Salvotti nel 1881 o alla giustamente rinomata versione dei maggiori Poems di Ernesto Ragazzoni del 1896, la cui preminenza viene contesa solo dall’analogo novecentesco di Federico Oliviero (1912). Viene ricordata l’influenza fortissima di Poe su Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio, Arturo Graf e Guido Gozzano, e la fascinazione contraddittoria di Mario Praz, traduttore de Il corvo fino dal 1921, che non lo amava ma lo teneva ben presente come costante riferimento nelle sue opere principali La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica e Il patto col serpente o – fin nel titolo che riprende The Philosophy of Furniture – Filosofia dell’arredamento. Poi i testi in prosa, adattati in versione più libera da Elio Vittorini, molto più fedelmente da Carlo Izzo e nella forma più affascinante, che suscitò l’entusiasmo di Italo Calvino, da Giorgio Manganelli. Infine il caso estremo del Gordon Pym che conta tra il 1900 e l’attualità ben diciotto diverse traduzioni: probabilmente il romanzo statunitense del XIX secolo in assoluto più tradotto in Italia.
Concludiamo con un’attestazione di vicinanza che solo chi ama veramente Poe potrà comprendere fino in fondo: Genio in bilico è uno studio che oltrepassa l’ambito disciplinare specialistico dell’americanistica, vi si legge al di là della professionalità accademica, un’emozione reale: motivo in più, oltre la pregnanza, la chiarezza e la piacevolezza della lettura, per non far mancare questo volume nella biblioteca di ogni autentico appassionato della figura e dell’opera di Edgar Allan Poe, l’inventore della letteratura moderna.