Trovarsi davanti a un romanzo d’esordio procura sempre una certa emozione: l’aspettativa, la scoperta riga per riga dell’autore e della sua prosa, la trama che si compone paragrafo dopo paragrafo, le sensazioni suscitate a pelle, prima ancora che prenda forma il giudizio critico. Talvolta, certo, subentra il sapore amarognolo della delusione, quando si avverte un senso d’incompiutezza, nei casi gravi d’inadeguatezza. Altre, più rare volte, si percepisce l’euforia suscitata dalla pienezza della storia narrata, dalla coerenza del racconto, dalla tenuta dei personaggi e dell’intreccio, dalla riuscita di descrizioni e atmosfere.
È questo il caso dell’esordio romanzesco di Pietro Leveratto, Il silenzio alla fine, pubblicato dall’editore Sellerio. Leveratto, apprezzato contrabbassista jazz, compositore, arrangiatore e docente di conservatorio, si è cimentato in un’arte per lui nuova con apprezzabili risultati, scrivendo una sorta di giallo storico, ambientato agli albori degli anni Trenta del Novecento. L’intreccio è di fantasia, ma il contorno, le ambientazioni, il linguaggio e le attitudini dei personaggi sono frutto di una capillare ricerca che conferisce spessore e realismo alle vicende narrate.
Il libro si apre con l’elenco delle dramatis personae, che già solo nel suo carattere démodé crea un’atmosfera del tempo che fu. La storia è introdotta da un primo capitolo in funzione di cornice, il cui titolo, “Ouverture”, non è meramente evocativo. La musica è infatti il perno attorno a cui ruota il testo, a livello tematico e strutturale, sintattico e lessicale, informa le vite dei personaggi e di un’intera epoca, mirabilmente ritratta. La trama è ordita come un melodramma, un’opera corale, i capitoli ne assumono le cadenze, seguendo le indicazioni che si trovano su uno spartito (“Come improvvisando”, “Allegro con fuoco”, “Accelerando poco a poco”, “Passacaglia”, “Tema con variazioni”) e che si alternano a citazioni latine.
Dopo un inizio nella Roma del 1931, la vicenda si sposta a New York, l’anno seguente, agli sgoccioli del proibizionismo e con la rutilante età del jazz ormai offuscata dalla Grande Depressione. Nel Paese dove “tutto è nuovo, compresa la musica della radio”, quell’America che “pareva veramente il luogo dove tutto diventava possibile”, in una città “dove bastava svoltare un angolo e finivi in un luogo che pareva lontano migliaia di chilometri da quello che avevi lasciato pochi passi prima”, brulicante di vite e di storie, di strade, di quartieri e di cultura cosmopolita, tre uomini intrecciano drammaticamente le loro esistenze: David Weissberg, noto direttore d’orchestra austriaco, ascetico ebreo dall’animo tormentato; il suo alter ego, il celeberrimo collega italiano Andrea Bergallo, viveur e antifascista in esilio; Gaspare Tiralongo, un siciliano dallo scarso ingegno ma dalla smisurata ambizione, camicia nera “antemarcia”, come si diceva allora.
I due musicisti, un tempo amici, poi divisi dalle vorticose vicende esistenziali, sono legati da stima reciproca, dall’enorme passione che anima le loro vite, la musica classica e operistica, salvifica e totalizzante per entrambi. Sulle loro vite si abbatte il destino, autentico protagonista della storia, che si serve del Tiralongo, sodale di Mussolini fin dagli albori socialisti e pertanto convinto di esserne l’interprete più autentico in una selva di leccapiedi e traditori, pur se il duce a malapena ne ricorda la figura.
Una notte, nelle strade di una metropoli raffigurata con vivido tratto e dettagli suggestivi, Weisseberg, in preda ai suoi demoni interiori di artista e di ebreo che si sente esule ovunque, si perde volutamente, incontrando un amore e imbattendosi in un’arte per lui perturbante quanto affascinante – la musica jazz. Dualismo, questo – tra la compostezza e la forma apollinea della musica classica e il “ritmo trascinante e nuovo” del jazz –, che in fondo è tale solo in superficie: il musicista classico rivedrà i suoi pregiudizi su quella musica “piena di fuoco e di idee”, in una delle scene più riuscite, dove si confronta con un celebre jazzista di colore. Tale contrapposizione conferisce ulteriore sapore alla vicenda, peraltro su coppie oppositive composta: vita/morte, arte/guerra, spontaneità/controllo, sogno/realtà.
Quella stessa notte Bergallo scompare misteriosamente, in seguito alle goffe ma tragiche trame di Tiralongo, “fascista senza onore né gloria”. Si apre dunque un caso spinoso, le ricerche annaspano, l’FBI indaga ma è totalmente impegnato a risolvere il mistero del rapimento del piccolo Lindbergh, che ha devastato le coscienze americane, e comunque non è grande la volontà di far luce sui rapporti tra un “socialista”, la criminalità italiana che sembra aleggiare dietro quella sparizione e un governo straniero. Alla verità si arriva, per vie tortuose, ma è una di quelle verità indicibili.
In questo intreccio si muove una selva di personaggi – artisti, direttori di teatri, commercianti, entraineuse, malviventi, agenti federali – rappresentati con ammirevole realismo psicologico, tanto che, nell’ordito da narrazione storica venata di giallo, questo si può definire un fine romanzo d’ambiente, dove l’assoluto protagonista è il caso indifferente che domina le vicende umane, che “guarda agli uomini, alla loro fatica e alle loro lacrime, con la distanza vagamente partecipe di un entomologo intento a studiare i contorcimenti di un insetto sotto una lente d’ingrandimento”. Il destino, o l’accidente, nella frenetica e sempre desta metropoli statunitense trova un correlativo oggettivo perfetto, un suggestivo fondale su cui rappresentare storie di vita e di morte.
In un romanzo ben meditato sin dalla lingua, filologicamente corretta rispetto all’epoca in cui è ambientato – caratteristica non da poco, dacché molte narrazioni storiche o pseudo-tali cadono rovinosamente proprio su questo aspetto, e che testimonia la cultura dell’autore –, compaiono anche figure reali, come Fritz Lang, J. Edgar Hoover o lo stesso Mussolini: evidentemente l’esperimento portato avanti da Antonio Scurati con i romanzi del ciclo M sta rimuovendo una sorta di tabù letterario sulla rappresentazione di quella fosca figura. Ma a convincere, come si diceva, è proprio l’intelaiatura in cui i personaggi sono inseriti: sembra davvero di attraversare le strade di New York in quel dato momento storico, di incrociarne donne e uomini del tempo, di sentirne la vita senza avvertire insidiosi e irritanti sfasamenti temporali.
La vicenda si conclude malinconicamente a metà degli anni Sessanta, con la scomparsa dell’ultimo testimone degli eventi narrati (pur costellati da intrusioni autoriali) e di un’epoca irrimediabilmente conclusa, di un momento storico aspro e violento, feroce e dimidiato, ma che conserva un fascino ammaliante, e che grazie a romanzi come questo i contemporanei possono assaporare in tutto il suo ferrigno splendore, impedendo che sul passato cada il gelido silenzio dell’oblio.