La storia della cultura umana è costellata di perdite, dispersioni, smarrimenti. Uomini, idee, conoscenze che precipitano nel buco nero della dimenticanza, lasciando più poveri d’intelligenza i posteri. Un caso emblematico è quello di Pierre Nicole: chi lo ricorda, oltre a un ben ristretto novero di studiosi di filosofia, teologia o storia del pensiero?
Eppure, Nicole è stato un personaggio straordinario. Nato a Chartres nel 1625 (e morto a Parigi nel 1695), fu bambino prodigio (apprese in tenera età il greco, il latino e l’ebraico) e lettore voracissimo, conseguì il grado di magister artium al collegio di Harcourt, il baccellierato in teologia alla Sorbona, quindi si dedicò all’insegnamento (tra l’altro, da lui imparò il greco il giovane Racine). Pungente ed eterodosso moralista, controversista del Giansenismo, tra le menti più acute e originali del suo tempo, fu autore di numerose opere tra cui, con Antoine Arnauld, la celebre Logica, e i monumentali Saggi di morale (25 tomi!), che rivaleggiano con quelle di Pascal (le cui Lettere provinciali devono non poco a Nicole, che poi le tradusse in latino) e di Montaigne, pensatori che ben altra sorte hanno avuto presso i posteri. Un intellettuale la cui sterminata cultura era pari alla grande umiltà; un uomo, nelle parole di Henri-Charles de Beaubrun, suo esecutore testamentario, “profondo e preciso”, che come pochi “hanno spinto più in là l’arte di ragionare”.
Destino singolare, quello della fortuna critica di Nicole. Apprezzatissimo dai suoi contemporanei, a cominciare da Madame de Sévigné, colta e arguta scrittrice nonché sua protettrice, che avrebbe voluto metterne in infusione gli scritti per poi “trangugiarli”, al suo amico Pascal, a Locke (che ne lodava la forza argomentativa e la lucidità della ragione, e che tradusse in inglese il trattato qui recensito), a Voltaire (nel cui Siècle de Louis XIV si legge: “I suoi Saggi di morale sono utili al genere umano, e non moriranno mai”), al nostro Alessandro Manzoni che, dichiarandosene gran saccheggiatore, nelle Osservazioni sulla morale cattolica lo definisce “Un osservatore profondo e sottile del cuore umano, il grande Nicole”. Ma col procedere del secolo Diciannovesimo, il riconoscimento del chierico di Chartres sbiadisce, anche se nel Novecento non sono pochi gli scrittori che hanno attinto a piene mani al suo pensiero.
Bene, il tempo della dimenticanza è finito. Con un’operazione culturale invero lodevole, l’editore Liberilibri ha ripescato dalle gore dell’oblio questo notevole pensatore, pubblicando il saggio di apertura dei suoi Essais de morale, Miseria dell’uomo (De la faiblesse dell’homme), un libretto di una cinquantina di densissime pagine, un distillato di acume, conoscenza e coraggio intellettuale, curato e tradotto da Marco Lanterna. Lanterna ha reso un ben degno servizio all’autore con una prefazione altrettanto incisiva e urticante del saggio presentato (la cui unica tara è forse un’eccessiva radicalizzazione del pensiero di Nicole, forzata in una cornice prettamente nichilista e apocalittica), la quale, inquadrando in una prospettiva storica la sua opera, compie un atto di giustizia critica: “Questo trattato non è solo una nascosta stazione del pirronismo francese da Montaigne a Bayle; di più, salda i greci più disperati ai più disperati moderni”. E ancora: “In alcuni punti par di leggere Cioran o Caraco, oppure il nostro Rensi; in parte perché costoro, grandi lettori del Gran Siècle, presero – quasi testualmente – da Nicole”. Dunque, siamo davanti ad un classico, da degustare in ogni parola, in ogni frase, in ogni concetto. Ma insomma, cosa dice questo Nicole?
In quindici agili capitoletti, egli argomenta in modo ben persuasivo la necessità di umiliare l’essere umano rendendolo consapevole della sua intrinseca miseria: “Disingannare l’uomo dall’illusione con cui si rappresenta grande, mostrandogli la sua piccolezza e le sue infermità”. Per far questo, Nicole focalizza il discorso sul corpo e sulla pretesa intelligenza dell’uomo, ma non da una visuale esteriore e ingannatrice, “che cela ciò che non si vuol vedere e mostra ciò che più ci aggrada”, bensì da una prospettiva più estesa e sincera, “che ci rivela a noi stessi così come siamo, mostrandoci quello che realmente abbiamo di debolezza, forza, bassezza e grandezza”.
Il risultato di tale spietata analisi è un avvilente elenco che definisce innegabilmente la piccolezza, la fragilità, l’impotenza dell’essere umano: in una parola, la sua irredimibile miseria. La forza che l’uomo reputa di avere? Mal fondata. Il corpo è una macchina “né immortale, né aliena dall’essere ingannata e sregolata”, che racchiude “in sé le cause della sua distruzione e rovina”, soggetta “a un’infinità di anomalie penose che chiamiamo malattie”. Già solo a paragonarlo a quello delle bestie, il nostro corpo è desolantemente inferiore, sotto ogni aspetto.
Ma che dire della scienza, della ragione, della virtù, dell’intelligenza, orgoglio supremo dell’uomo? Be’, la critica demolitrice di Nicole riduce in cenere anche quelle. Con un serrato argomentare filosofico ed un linguaggio denso di incisive metafore, le mina alle fondamenta, facendo notare “la tendenza umana a giudicare non tramite il vero, ma sull’opinione altrui”. La scienza delle parole, di cui l’uomo mena gran vanto, “tiene luogo di strumento e non di fine”, ed è tutt’al più “dimostrazione palese non solo dell’ignoranza degli uomini, ma altresì della loro quasi assoluta incapacità nel conoscere alcunché”. Né miglior sorte ha la scienza dei fatti o degli eventi storici. In tipica modalità scettica, Nicole afferma l’impossibilità di accertare la verità: “E pur quando non si può dire che le storie siano false, quanto sono differenti dalle cose stesse! Come i fatti vi sono spolpati, cioè separati, tanto dai movimenti segreti che li hanno prodotti, che dalle circostanze che ne hanno favorito l’esito!” E la filosofia, da taluni considerata la summa della conoscenza umana? Spietata conclusione: essa “non è che un ammasso d’oscurità e incertezze, e persino di falsità”. Perché “come non arricchisce il conoscerle fantasie alchemiche di chi ha cercato di ricreare l’oro, non si è più sapienti nel tener memoria delle farneticazioni di chi ha cercato la verità senza trovarla”.
“Solo la scienza delle cose” concede Nicole, “quella che mira a soddisfare l’intelligenza con la conoscenza del vero, può vantare una certa solidità”. Eppure anch’essa, al fondo, si rivela inutile: “Quale maggior esempio della pochezza dell’intelligenza umana del rilevare che, in tremila anni, nonostante tutti gli uomini che hanno mostrato grande acume nel penetrare la natura e gl’innumerevoli scritti composti su tale materia, dopo tante fatiche, si scopre d’essere punto a capo?” Socratica morale: “È assurdo che l’uomo non conosca nemmeno la propria ignoranza che è la scienza più preziosa di tutte”.
La nostra intelligenza, poi, è capace di apprendere “un solo oggetto e una sola verità per volta”. Essa riesce a riconoscere soltanto “la superficie e la scorza” delle cose, e soprattutto, non sa distinguere tra falso e vero: “Se non si vede la via, ci si dispera; quando se ne vedono troppe, ci si confonde; e la luce dell’intelligenza, che vede più cause, è capace d’ingannarci quanto la stupidità che non vede nulla”.
A completare “il miserevole quadro della nostra intelligenza”, Nicole ci butta in faccia la “debolezza invincibile” della volontà, della ragione, la forza delle passioni che ci agitano e ci fanno deragliare di continuo, la follia incipiente in ogni essere umano, poiché tra il più saggio degli uomini e il più folle il divario è soltanto di grado: “Non abbiamo solo l’obbligo di riconoscere che siamo capaci di follia, ma dobbiamo anche confessare a noi stessi che la sentiamo e vediamo già tutta formata in noi, senza sapere per quale motivo non si compia per intero schiantandoci la mente”.
Tutto ciò e molto altro troverete in questo libretto. E nell’epoca di pandemia che stiamo vivendo, per quello che essa ci sta insegnando, gli ammonimenti di Nicole contro la presunzione e la vanità umane risuonano con fragor di tuono. Forse dovremmo davvero fermarci a riflettere a fondo sugli ammaestramenti d’un pensatore così radicale che, nell’invitarci a prendere coscienza della nostra intrinseca, infinita piccolezza, della nostra insolenza e superbia, si rivela tanto moderno ed attuale. Forse dovremmo davvero “distruggere la vana compiacenza che l’uomo trae dal senso di rango che si ritaglia nel piccolo mondo dove si chiude”, con un atto di umiltà soffocare la nostra ridicola hybris, squarciare le tenebre in cui ci aggiriamo e prendere finalmente consapevolezza della tremenda realtà che abbiamo costruito, eludendo stoltamente la domanda posta da Pierre Nicole: “Cosa c’è di più fragile e debole della vita d’un uomo?”