Pierre Lemaitre / Paris, 1952

Pierre Lemaitre, Il silenzio e la collera, tr. Elena Cappellini, Mondadori, pp. 600, euro 23,00 stampa, euro 11,99 epub

Dopo il successo de Il gran mondo, Lemaitre torna in libreria con il portentoso secondo volume della saga sociale dedicata agli anni del secondo dopoguerra, un romanzo capace di prendere in prestito la Storia per scomporla nei minuscoli pezzi delle singole vite che scrivono il grande puzzle di un presente ancora tutto da decifrare.

Nella Parigi degli anni Cinquanta, i tre fratelli Pellettier – Hélène, François e Jean – si preparano ad affrontare il viaggio annuale di visita ai propri genitori a Beirut, loro città d’origine, e al “pellegrinaggio” all’azienda di famiglia, il saponificio del padre, che sogna un giorno di poter affidare a uno dei figli. L’unica entusiasta del viaggio, tuttavia, sembra essere Geneviève, la spietata moglie di Jean, uno dei caratteri più originali e incisivi dell’intero romanzo.

Mentre i fratelli sono alle prese con un’intricata gestione quotidiana che, tra la descrizione delle incombenze più pratiche e comuni e la narrazione dei tragici episodi che punteggiano la vita di ciascuno di loro, costituisce di fatto l’ossatura di una trama perfetta e avvincente, Geneviève, con il suo tono dispotico, i capricci e l’insensibilità che la contraddistinguono, non vede l’ora di viaggiare in aereo, di farsi scarrozzare per la città dettando ordini ai sottoposti del suocero, e magari – sarebbe la ciliegina sulla torta – assistere a qualche litigio in famiglia. Al suo fianco incespica l’irrequieto Jean, alle prese con l’apertura di un grande magazzino di abbigliamento per donne e bambini a basso costo nel centro di Parigi, stretto fra debiti, visioni capitaliste, amore per la figlioletta maltrattata dalla madre e tentativi di rimozione dei suoi efferati crimini contro donne sconosciute. Aspetto, quest’ultimo, narrato da Lemaitre in modo destabilizzante: se inizialmente si ha la sensazione di trovarsi di fronte a uno sviluppo della trama, a un lato “giallo” del romanzo, veniamo invece presto smentiti dal tono volutamente neutro con cui anche i tragici episodi di violenza che riguardano Jean vengono inseriti nella narrazione.

Molto più che un thriller, l’autore costruisce un’opera stratificata che offre al lettore un ritratto della società francese degli anni ’50, vista dai suoi stessi protagonisti: uomini e donne apparentemente comuni, che vivono momenti di grande intensità storica senza avere però la possibilità di osservare la portata degli eventi di cui sono testimoni. Scegliendo il tono pacato di una focalizzazione esterna, Lemaitre sembra affidare a noi lettori la responsabilità della consapevolezza di quelle scelte che ciascuno compie per sé, ma che inevitabilmente si riflettono, a breve o media distanza, nella collettività. Individualità e solitudine da un lato, collettività e condivisione dall’altro, costituiscono anche gli aspetti collaterali più incisivi che incrociano il grande tema del romanzo, che lega tutti i personaggi tra loro attraverso fili dal percorso inaspettato, restituendo quello che più che un affresco è un groviglio di destini indissolubilmente legati al tessuto storico e sociale in cui si trovano impigliati: l’aborto.

Il silenzio del titolo non è altro che quello a cui sono condannate le donne che scelgono di interrompere una gravidanza indesiderata, disposte ad affidarsi a chiunque e a qualsiasi metodo, non importa quanto inefficace o dannoso, acconsentendo a pagare prezzi esorbitanti e vivendo con il timore di essere denunciate per una pratica ancora illegale e clandestina. Un silenzio carico di disperazione, rotto solo timidamente e con grande diffidenza tra donne disposte ad aiutarsi, tra paure, sottintesi e malcelati giudizi.

La collera, invece, è quella dei lavoratori sfruttati che via via prendono coscienza dei loro diritti e li rivendicano. E, ancora una volta, nel romanzo questa voce è affidata a personaggi femminili: donne che vivono nell’ombra, il cui principale obbiettivo è quello di mantenere un basso profilo, per non farsi notare ed essere assunte per poter mantenere un figlio piccolo nel frattempo affidato a una vicina, che trovano il coraggio di alzare gli occhi dal lavoro e scoprire che non sono sole. E se i risultati della loro presa di coscienza non sono certo incoraggianti, un primo passo verso la consapevolezza è stato fatto. L’importante, verrebbe da dire alla luce della sconcertante attualità di questi stessi temi a oltre settant’anni dall’ambientazione del romanzo, è almeno non tornare indietro. Quantomeno, per tentare di non vivere la femminilità al pari di Geneviève, arrabbiata con il mondo, ma soprattutto con il marito, il quale “all’improvviso comprese perché la moglie gli rendesse la vita così difficile fin dal primo giorno. Scontava il fatto che, senza saperlo, Geneviève soffriva di non essere un uomo. E su questo, Jean non poteva farci niente. Nessuno poteva farci niente. […] era l’equivalente di una condanna”.

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