Nel panorama dell’autofiction francese, nella sua declinazione post-moderna concentrata sulla dialettica tra fatti e menzogna, Pierre Jourde rende propri i temi e gli ingredienti tipici del genere con una prosa dinamica e ricca d’ironia. Il viaggio del divano letto è narrazione autobiografica e insieme romanzo per stessa ammissione dell’autore, una storia di famiglia e relazioni letta attraverso due punti di analisi già annunciati nel titolo: il divano letto e i viaggi. Il primo è solo uno dei tanti oggetti chiave negli eventi rievocati nel libro. Alla morte della nonna, due fratelli vengono incaricati dalla madre di trasferire il divano letto della defunta dalla periferia parigina all’Alvernia, nella loro proprietà. I protagonisti, la traversata, la cascina – echi del precedente Paese perduto. Stavolta l’impresa prevede lo spostamento in furgone e la presenza di una figura femminile, Martine, e ha luogo in un fine settimana di Pasqua. Dall’aspetto materiale fino ai significati che gli oggetti hanno assunto nelle vite di Pierre, Bernard e i loro cari, alle sensazioni evocate dalla loro vista. Il bisogno materno di conservare il divano letto, per esempio, nasce dalla volontà di colmare i vuoti affettivi nel rapporto con i genitori, incapaci fino alla fine di amarla; in parallelo il compito di trasportarlo ricorda al narratore la noia e la frustrazione delle ore passate con i nonni, i suoi sentimenti contrastanti nei confronti degli oggetti, per cui prova fascinazione e sospetto.
I loro segreti e il loro silenzio, così come il ruolo nelle nostre esistenze, mettono in moto meccanismi per noi incomprensibili: “Quella maledetta conchiglia aveva fatto sì che fossi colpito al cuore del problema. Che fossi portato a misurarmi con quanto siamo distanti da noi stessi, lontani dal nostro stesso corpo, come se fossimo rinchiusi in una stanza oscura e la nostra unica relazione con il mondo, come anche con noi stessi, fossero serie di suoni provenienti da chissà dove, emessi da chissà chi, chissà come, e ci toccasse passare la vita a tentare di decriptarli”. Oggetti reali, ma comunque immaginari, perché filtrati dalla finzione. Anche il viaggio intrapreso da Pierre e Bernard, pur essendo accaduto, è il risultato di una rielaborazione del Pierre scrittore, tanto che i personaggi acquisiscono gradualmente contezza di essere in un’opera. Ogni tappa del tragitto, ogni aneddoto condiviso, diventa occasione per parlare dell’infanzia e della giovinezza spericolata in giro per il mondo dei due fratelli, dell’insoddisfazione della madre nei loro confronti.
Un viaggio anche nell’atto di scrivere. Jourde pungola l’attenzione di chi legge, riflette sulla stesura del testo che teniamo tra le mani e sulla sua carriera. Tra scene esilaranti e momenti più intimi, esplora il senso della letteratura e dei concetti di realtà e invenzione, e soprattutto la necessità di non prendersi mai troppo sul serio: “Lo scrittore vorrebbe essere assoluto. È nella sua natura. Cioè vuole al contempo sfuggire alla dipendenza e ricevere tutti i riguardi, tutti gli onori. Ma chi vuole fare l’angelo finisce per fare la bestia. È questo il punto degli imbrogli e delle umiliazioni, dei fallimenti e delle difficoltà. Riportarci al lato comico delle nostre pretese. Non perché sia morale, ma perché è più vero. Il lato comico è un supplemento di coscienza”.